La città del Sole e della Luna
Un raffinato racconto di conflitti planetari e personali. Avvincente e originale, La città del Sole e della Luna parla del confine incerto tra scienza e pseudo-scienza intrecciando in modo magistrale storia e soggettività.
- Collana: ScienzaLetteratura
- ISBN: 9788822015044
- Anno: 2011
- Mese: novembre
- Formato: 13 x 21 cm
- Pagine: 408
- Tag: Letteratura Fisica Romanzo Pseudoscienza
Karl Neder è un geniale fisico ungherese che non crede alla teoria della relatività, sostiene di aver inventato una macchina del moto perpetuo e tempesta di lettere deliranti la redazione della più prestigiosa rivista scientifica. Ma Neder è anche un personaggio quanto mai sfuggente. Ne sa qualcosa Lena, una giornalista britannica in cerca del grande scoop, che ne segue le tracce per intervistarlo: ricostruendo le sue peregrinazioni dai castelli della Transilvania a una Budapest sotto il giogo sovietico fino ai laboratori di Princeton ai tempi della corsa allo spazio, si ritrova ad attraversare tutta l’Europa per scoprire dove si nasconde. Negli anni precedenti alla caduta del muro di Berlino, fisici eretici, accademici boriosi e giornalisti scientifici compongono il racconto di una ricerca esistenziale prima ancora che professionale e di una scienza divisa tra ortodossia, idealismo e spregiudicatezza. La città del Sole e della Luna è un libro allo stesso tempo drammatico ed esilarante, che parla del labile confine tra scienza e pseudoscienza intrecciando in modo magistrale storia e soggettività.
La città - La conferenza - Esperimenti - Lavoro incompiuto - In orbita - Fuoco vivo
L’Hotel Erd, dunque: lì a ostentare la sua mole squadrata sulla prestigiosa Makartgasse, a sedurre con una promessa di decadenza austroungarica. Come un’avvizzita puttana viennese maestra, grazie ad anni di pratica, nell’arte di scaricare tutta l’ignominia sui clienti. I plinti e i ghirigori, i busti in torsione, le fanciulle con l’elmo e le ghirlande lapidee urlavano «Mozart» e, per chi non avesse afferrato il concetto, nell’atrio risuonava Il flauto magico.
L’albergo faceva bella mostra di sé di fronte alla neo-rinascimentale Accademia di Belle Arti, dove, nel 1907, un diciottenne Adolf Hitler era stato bocciato all’esame di ammissione.
Le guide lo sbandieravano come un motivo di vanto nazionale, sottintendendo che l’impero austriaco aveva saputo riconoscere l’intrinseca volgarità del Führer ben prima che tornasse a spaccare vetrine e mangiare Sachertorte all’Hotel Imperial.
Ma non c’era bisogno di addentrarsi molto nell’Hotel Erd per accorgersi che si trattava di un barocco da due soldi. L’atrio era eziolato e sfatto, e così anche i dipendenti, che trattenevano a stento un sogghigno. Uno degli ascensori dalle sbarre a losanghe aveva un cartello con la scritta «Defunkt», e la «International Konferenze on Space-Time Absolutness» era annunciata da un cartello scritto a mano e appoggiato su una sedia.
Conferenza internazionale sull’assolutezza spazio-temporale.
E cos’era, poi, l’assolutezza spazio-temporale? Lena non ne aveva idea. Ma, mentre osservava la mischia addensarsi e coagularsi, si rese conto che quelle persone erano arrivate lì con l’intenzione di prodigare analogo urlo e furore su qualsiasi cosa ritenessero assoluta nello spazio-tempo, e avvertì la consueta agitazione, il panico che le montava dentro. Ancora una volta non sono all’altezza, pensò. Mi ero detta che non sarebbe più successo, e invece sì.
Prima la cosa era sempre stata ininfluente. Per diversi anni, non essere all’altezza era stato praticamente l’unico dato certo della sua vita, e non aveva mai temuto sul serio che ci fossero conseguenze negative, perché chi mai sarebbe venuto a saperlo e, in fondo, a chi sarebbe importato? Era solo una giovane cronista a un incontro sindacale o un’udienza di tribunale o un qualsiasi altro insignificante episodio secondario della grandiosa narrazione di potere e politica verso cui l’avevano spinta il direttore del giornale o il suo stesso fiuto insidioso. In genere, le pubblicazioni per cui lavorava avevano un bisogno così disperato di riempire le proprie pagine che il contributo più banale da parte di un free lance veniva accettato senza commenti né correzioni. Si poteva fare un collage di luoghi comuni e massacrare la sintassi; il testo non serviva che a riempire lo spazio tra una pubblicità e l’altra.
Ma ciò avveniva prima di quello che ormai non poteva fare a meno di considerare il suo grande successo. Dopo che il suo servizio in esclusiva aveva dato luogo a una sfilza di titoli quasi fotocopiati sui quotidiani seri, Lena aveva deciso di non accettare più incarichi di cui non sapeva nulla. «A questo punto la posta è troppo alta», si era detta, «per andare in giro a coprirmi di ridicolo. È ora di fare sul serio, di assumere un tono autorevole. In fondo, ciò che scrivo può contribuire a cambiare le cose».
Oh, come no! Settimane dopo il famoso articolo, non aveva scritto un solo pezzo. Evidentemente, i giornali locali di South London avevano deciso che ormai Lena Romanowicz era troppo lanciata per scrivere per loro, mentre i rotocalchi e le testate più autorevoli sembravano essersi scordati in fretta del suo scoop, benché fosse stato ripreso entro pochi giorni sia dal «Times» che dal «Guardian». Non era stata sommersa dagli incarichi; a dire il vero, non aveva chiamato proprio nessuno (registrare un messaggio più sobrio sulla segreteria telefonica si era rivelata una precauzione inutile). Perfino «Cosmopolitan», che pubblicando l’articolo di Lena si era ammantato di un’insolita aura di credibilità investigativa, doveva aver concluso che si era trattato di un colpo di fortuna che difficilmente sarebbe riuscita a ripetere.
Aveva finito per ripiegare sulle correzioni di bozze e le revisioni da free lance, i consueti espedienti degli scribacchini che lottavano per sbarcare il lunario. C’erano le bollette da pagare, ed era in arretrato con l’affitto. Si osservava tornare alla sua precedente esistenza di mescolatrice di parole senza capo né coda.
E poi aveva visto quell’articolo su Karl Neder.
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