L'oscuro labirinto del cielo
Un romanzo di intrighi ed eresie in uno dei periodi più bui, ma anche più fertili di idee, della storia europea. Una lezione di spirito scientifico, coraggio e libertà di pensiero.
- Collana: ScienzaLetteratura
- ISBN: 9788822015082
- Anno: 2012
- Mese: novembre
- Formato: 13 x 21 cm
- Pagine: 352
- Tag: Letteratura Fisica Romanzo Storia della scienza Astronomia
Agli albori del XVII secolo, in un’Europa funestata da continue guerre, due astronomi rischiano la vita per svelare le leggi che regolano il funzionamento dell’Universo. Johannes Kepler è cagionevole, innamorato della moglie, rigidamente luterano, Galileo Galilei un po’ tronfio e padre di due figlie illegittime: entrambi studiano il moto dei pianeti, sposano la teoria copernicana e sfidano le più potenti forze politiche e religiose del loro tempo, fino ad affrontare l’accusa di eresia. Combinando invenzione romanzesca e una solida base documentaria, Stuart Clark ricostruisce una pagina cruciale della storia dell’astronomia e crea un ritratto vividissimo dei due illustri scienziati e della loro epoca. Un grande affresco storico, avvincente come un’opera di fantasia.
I. Ascensione - 1. Roma, Stato Pontificio - 1600 - 2. Praga, Boemia - 3. Praga, Boemia - 4. Praga, Boemia - 5. Praga, Boemia - 6. Roma, Stato Pontificio - 7. Benátky, Boemia - 8. Benátky, Boemia - 9. Tubinga, Svevia - 10. Praga, Boemia - 1601 - 11. Praga, Boemia - 12. Roma, Stato Pontificio - 13. Praga, Boemia - 14. Praga, Boemia - 15. Praga, Boemia - 1604 - II. Apice - 16. Praga, Boemia - 1610 - 17. Padova, Repubblica di Venezia - 18. Roma, Stato Pontificio - 19. Praga, Boemia - 1610 - 20. Roma, Stato Pontificio - 1611 - 21. Praga, Boemia - 22. Praga, Boemia - 23. Firenze, Granducato di Toscana - 24. Praga, Boemia - 25. Roma, Stato Pontificio - 26. Roma, Stato Pontificio - III. Tramonto - 27. Linz, Austria superiore - 1612 - 28. Firenze, Granducato di Toscana - 29. Leonberg, Svevia - 30. Firenze, Granducato di Toscana - 1623 - 31. Linz, Austria superiore - 1627 - 32. Linz, Austria superiore - 33. Roma, Stato Pontificio - 1632 - 34. Linz, Austria superiore - 1627 - 35. Roma, Stato Pontificio - 1633 - 36. Roma, Stato Pontificio - Epilogo - Ringraziamenti
Praga, Boemia
1610
Il legno scheggiato si agganciava alle suole dei calzini di Kepler mentre saliva le scale in punta di piedi. In una mano, una flebile luce di candela che tremolava sotto lo spiffero proveniente dalle stanze nel sottotetto. Nell’altra mano, un treppiede di legno e un preziosissimo tubo di cuoio contenente un paio di lenti di vetro molato.
Era il tubo ottico del duca di Baviera; il nobile era arrivato a corte con lo strumento e Kepler aveva il permesso di usarlo per tutta la prosecuzione delle tese negoziazioni politiche. Il consigliere del duca, Herwart von Hohenburg, gli aveva recapitato il tubo, avendo premura di spiegare che un certo padre Guldin aveva sottolineato le esigenze di Kepler.
Padre Guldin. Di nuovo i gesuiti.
Non gli avevano chiesto niente in cambio, anche se non potevano ignorare che la cortesia lo avrebbe costretto a inviare loro le sue osservazioni. Per quanto volesse credere che fossero motivati esclusivamente da un sentimento di fratellanza scientifica, da quando Grienberger aveva tentato di convertirlo l’indomani della nascita di Susanna, non riusciva a scrollarsi di dosso l’inquietudine di trovarsi sotto la loro protezione.
I timori per Susanna erano del tutto ingiustificati, pensò con orgoglio. Era una bambina forte e intelligente, attorniata da fratelli altrettanto robusti.
Aveva lasciato le scarpe in fondo alle scale nella speranza di non fare rumore. I passi di Frau Bezold spesso lo svegliavano, quando la donna si alzava di buon’ora per sbrigare le faccende di casa, e l’ultima cosa che voleva era disturbare Barbara. Una volta tanto era sprofondata nel sonno e adesso russava dolcemente nella camera padronale.
Giunto al pianerottolo, usò il gomito per aprire il chiavistello della stanza in fondo e scivolò all’interno. In un attimo la stanza si riempì di movimento e di un terribile mugolio. Kepler sentì il respiro sfuggirgli dai polmoni man mano che lo spettro appariva alla vista. Era un ammasso brulicante di lenzuola.
Quel terribile verso cessò all’improvviso, così come era iniziato, e Kepler si scoprì a scrutare una faccia conosciuta, vecchia ed emaciata, sormontata da uno zucchetto di mussola che quasi nascondeva una corona ispida di capelli grigi. «Cosa ci fate qui?», chiese quel viso.
«Preferirei porla io questa domanda, Frau Bezold. Questa non è la vostra stanza».
«Qui sul retro c’è più silenzio. Dormo meglio». Si strinse il lenzuolo intorno alle spalle. A quel movimento, un piccolo crocifisso di legno sfuggì dalle pieghe della camicia da notte.
Kepler rimase a fissarla, stupefatto da quel simbolo cattolico.
La domestica strattonò il lenzuolo per coprire la catena, come se nasconderla alla vista equivalesse a privarla di significato.
«Frau Bezold...». Posò la candela. La fiamma guizzò un istante poi tornò stabile.
«Non mi resta altro da quando Gerhard è morto. Mi piaceva parlare con Dio la domenica, ma da quando ci hanno impedito di andare in chiesa... In che altro modo potrei... A voi non mancano i sacramenti?».
«Ho imparato a farne a meno».
«Beh, io non ci riesco. È sempre lo stesso Dio, no? Convertirsi non è difficile, sapete. Basta andare in chiesa e rispondere a qualche domanda. Non è diverso quanto pensate». Kepler sospirò. «Dovete seguire la vostra coscienza. Ma vi sbagliate a pensare che le due chiese siano simili».
La donna inspirò rumorosamente, riaggiustando il lenzuolo.
«Allora, cosa ci fate qui?».
Per poco Kepler non rise della sua arroganza. «Ho qui il nuovo strumento proveniente dall’Italia». Rigirò il tubo di cuoio rosso tra le mani, ammirandone le piume goffrate. Era sorprendentemente leggero per essere un oggetto così importante.
«Stravagante», disse lei. «Cosa fa?».
«Fa sembrare più vicine le cose lontane. Dicono che riveli nuove meraviglie nei cieli».
«E a cosa serve? Non c’è niente di sbagliato in ciò che ci hanno sempre insegnato. La Terra si trova al centro, con sette sfere celesti sopra la nostra testa e sette sfere del demonio sotto i nostri piedi», recitò. «Il nostro comportamento in questa vita determina se nella prossima saliremo o scenderemo. Perché cambiare le cose?».
«Perché non funzionano. Ecco, tenete questo», le consegnò lo strumento. «E non fatelo cadere».
Si affaccendò con il treppiede mentre la donna si portava il tubo all’altezza dell’occhio e lo puntava tutto attorno. «Non vedo niente».
Kepler lo riprese e lo posò sul treppiede, lo ruotò con cautela per assicurarsi che fosse montato in modo appropriato.
Con un brontolio di soddisfazione, spalancò la finestra, lasciando entrare folate di aria gelida nella stanza.
Frau Bezold rabbrividì. «Io torno a letto, è troppo freddo».
«Non siete nemmeno un po’ curiosa?», indicò il tubo di cuoio.
«A che pro?».
«Vi mostrerà il regno di Dio. Non volete vederlo, forse?».
«Quando arriverete alla mia età, sarete ben lieto di rimandare quel momento». Uscì dalla stanza strascicando i piedi. Kepler puntò il tubo verso il globo luminoso di Giove, ma quando si abbassò per guardarvi attraverso, non vide che una distesa di nero. Diede un colpetto al tubo. Ancora tutto nero.
Provò ancora e ancora, i movimenti sempre più ampi, più disperati.
Di quando in quando qualcosa saettava nel suo campo visivo, ma non riusciva a fermare il tubo in tempo per individuarlo.
Si alzò, stringendosi fra le spalle, e si torse le mani per scaldarle, poi riallineò lo strumento. Stavolta Giove emerse con chiarezza. Kepler lo osservò stupefatto mentre quattro puntolini velati si materializzavano davanti ai suoi occhi. Voleva ridere e piangere allo stesso tempo. L’ultima volta in cui si era sentito in quel modo era quando Barbara aveva dato alla luce Ludwig.
Mentre osservava, notò che Giove appariva più grande rispetto alle quattro nuove stelle, più simile a un disco che a un punto di luce. Si diceva che le nuove stelle si muovessero intorno a Giove, creando un proprio sistema di rivoluzione e che, osservandole tutta la notte, si poteva vederle muovere.
Anch’esse si muovevano lungo delle ellissi? Le sue leggi sul moto planetario potevano applicarsi anche a quegli astri? Sembrava un’ipotesi ragionevole. Per dimostrarla, avrebbe avuto bisogno che qualcuno concepisse un modo per misurare le posizioni con quel nuovo strumento.
Ebbe uno spasimo. Tycho. Cosa avrebbe fatto di tutto ciò?
Un nuovo pensiero scacciò il vecchio. Si precipitò nella camera dei bambini e svegliò Friedrich e Susanna, intimando loro di far silenzio. «Devo mostrarvi una cosa», sussurrò guidandoli al piano di sopra e cercando di fare meno rumore possibile.
Firenze, Granducato di Toscana
1623
Galileo tentò vanamente di riordinare le sue carte, sbattendole sul tavolo per costringere i fogli a stare in una pila ordinata.
Si trovava nel parlatorio del convento. Alzandosi con un brontolio, sbirciò nella stanza vuota oltre le sbarre di ferro della finestra più vicina.
Dov’è suor Maria Celeste? E quand’è che ho smesso di pensare a lei come Virginia, il nome scelto da me?
Aveva tante cose da raccontarle.
Sei mesi prima, il mondo era cambiato con un pennacchio di fumo bianco uscito da un comignolo del Vaticano. Ignoranza, dubbio e paura erano stati spazzati via allorché il cardinale Maffeo Barberini era stato eletto papa con il nome di Urbano VIII.
Appena ricevuta la notizia dell’elezione, Galileo aveva messo sottosopra il baule di lettere nel corridoio, trovando il fascio giusto legato da un nastro di seta, e per poco non aveva strappato la fragile carta nella smania di rileggerle. Erano le missive che il pontefice gli aveva scritto anni prima, quando, ancora cardinale, lodava la sua astronomia e il suo intelletto.
Erano proprio come Galileo le ricordava. Urbano lo definiva un uomo devoto di grande virtù la cui astronomia portava cambiamenti favorevoli nelle altrui vite.
Galileo non aveva perso tempo e aveva inviato le sue congratulazioni al neoeletto papa. Aveva pensato di scrivergli direttamente una lettera, rifacendosi ai precedenti scambi, ma poi aveva riflettuto che il nuovo papa sarebbe forse stato più sensibile a uno sfoggio di ostentata umiltà. La divina provvidenza aveva voluto che di recente Galileo avesse indirizzato il nipote di Urbano al conseguimento della laurea di dottore, perciò aveva usato il giovane come messaggero.
Alcune settimane dopo, un corriere gli aveva recapitato una missiva che lo aveva mandato al settimo cielo. Con l’intenzione di proseguire e persino intensificare la loro corrispondenza, il papa lo aveva invitato in Vaticano. Galileo aveva riso al pensiero della costernazione che quell’invito doveva aver suscitato nelle sale del Sant’Uffizio, per non parlare del Collegio Romano. Tutto poteva cambiare ora che il papa, il capo supremo del mondo cattolico, era un suo sostenitore.
Galileo era tornato da Roma la sera prima e aveva una storia da raccontare.
Sbrigati, suor Maria Celeste!
Tornò a sedersi sulla scomoda sedia di legno e studiò con impazienza il suo lato della stanza. Era pulito, ma dai fori trascurati nel muro spuntavano la paglia e la stoppa che costituivano il legante interno. Persino la luce sembrava vecchia, lì dentro.
Vide del movimento dietro la grata di metallo. Suor Maria Celeste era sulla porta del versante opposto, con un piccolo fagotto in mano. Galileo si avvicinò alla finestrella e schiacciò il palmo sul divisorio di ferro. Le loro dita si intrecciarono.
«Hai freddo», le disse.
«Suor Arcangela mi ha chiesto di nuovo di lavarla».
Arcangela, il nuovo nome di Livia. «Come sta tua sorella?».
«È a letto con la febbre, come ti ho scritto».
«È una malattia seria?».
Suor Maria Celeste parlò con voluta cautela. «Altri se ne sarebbero liberati con maggiore facilità».
«Capisco».
«Ecco i vostri collari. Li ho rammendati e sbiancati». Gli passò gli indumenti attraverso le sbarre di metallo. Galileo li mise insieme ai documenti.
«Adesso parliamo di voi e delle vostre avventure. È imperdonabile che vi faccia attendere quando avete tante cose da raccontare. Mi siete mancato in quest’ultimo mese, padre. Ditemi, l’avete incontrato? Avete incontrato il nuovo papa?».
«Sì. Abbiamo passeggiato assieme nei giardini del Vaticano».
«Perdonate la mia curiosità, ma com’è?».
«È un uomo straordinario. Tiene in gran conto la mia astronomia.
Le cose saranno diverse, stavolta. Ci siamo incontrati cinque giorni di fila per dialogare di filosofia. Solo lui e io».
Papa Urbano si era recato al primo incontro a cavallo, il colore del suo abito talare in armonia con il manto bianco dello stallone. Galileo aveva sentito il cuore accelerare a quella visione solenne. Se non avesse indossato una nuova tunica costosa, ne sarebbe stato intimidito.
La guardie svizzere si tenevano a debita distanza, ma osservavano vigili mentre Urbano tratteneva il destriero, gli dava qualche pacca sul collo e scivolava giù dalla sella. Il papa dimostrava meno dei suoi cinquantacinque anni. Galileo si era inginocchiato e aveva baciato la mano protesa del pontefice.
«Avete saputo? Bellarmino è salito al Creatore», aveva annunciato Urbano.
«Sì, Vostra Santità». Galileo si era alzato.
«È morto senza un soldo. È riuscito a lasciare tutto ai poveri», aveva detto il papa. «Immagino di dover commissionare una statua».
Galileo non aveva fiatato.
Urbano aveva un pizzetto squadrato che sporgeva dal mento di cinque centimetri. I baffi erano impomatati in due punte orizzontali. Si spostava di continuo, ogni passo apparentemente teso a saggiare la sua nuova posizione nel mondo.
Galileo camminava sulla sua scia.
«Non l’avete mai perdonato per l’editto anticopernicano, non è così?».
Galileo osservò una coppia di uccelli volteggiare in cielo, scegliendo con cura le parole. «Ho molto di cui essere grato a Bellarmino. Senza di lui, l’editto avrebbe potuto essere più severo. In fondo Copernico non è stato messo all’indice, ma solo corretto».
«Roma adesso è diversa».
Galileo si voltò, dubitando di aver udito bene.
Gli occhi rotondi di Urbano ardevano. «Trasformerò Roma in un vivaio di cultura umanistica, sia spirituale sia filosofica.
Manderò missioni in tutta Europa e oltre, per portare i nostri insegnamenti nel mondo. Ma per farlo avrò bisogno di aiuto».
«Come sapete sono il vostro umile servitore, ma, Vostra Santità, avete il Collegio Romano alle costole».
«Oh, proprio così. Ho studiato con i gesuiti e li stimo come nessun altro, eppure conosco anche gli inconvenienti del loro sistema, la loro resistenza al cambiamento». Urbano squadrava attentamente Galileo.
«I gesuiti sono gli arbitri della cultura romana, Vostra Eminenza».
«Oh, andiamo, non nicchiate con me. Sappiamo entrambi che avete massacrato padre Scheiner per la sua interpretazione delle macchie solari».
Il cuore di Galileo aveva accelerato di nuovo. Il papa lo stava lusingando: voleva qualcosa da lui. «Vostra Santità, il buon filosofo vola solo come un’aquila, non in uno stormo di storni schiamazzanti. E anche se la sua voce solitaria può stentare a farsi sentire, egli può sfiorare altezze che nessuno storno potrà mai immaginare».
«Uno dei vostri pensieri mi colpisce in particolare: il vostro sostegno alla prova empirica a spese della saggezza degli antichi».
Galileo era impietrito. «Avete letto la mia ultima opera sulle comete del 1618?».
«Il saggiatore. Sì, me lo sono fatto leggere durante i pasti.
Non credo esista un altro uomo in tutta Europa capace di sollevare polemiche quanto voi. Sono affascinato dal vostro nuovo approccio di studio».
«Dovremmo credere solo a ciò che possiamo verificare con la sperimentazione. Nient’altro è credibile. La deduzione e la logica passano in secondo piano se paragonate all’esperienza dei nostri occhi e all’ingegno della nostra matematica. Vediamo la natura intorno a noi; investighiamola a fondo. In questo modo, possiamo avvicinarci a Dio».
«Pare così ovvio a posteriori».
«Se posso permettermi, Vostra Santità, le grandi idee lo sembrano sempre».
Urbano continuava a camminare, costringendo l’astronomo a tenere il passo. «C’è una cosa che mi sorprende, Galileo.
Il Collegio Romano adesso afferma di aver misurato tutte e tre le comete e conclude che sono corpi celesti, capaci di muoversi tra i pianeti. Tuttavia, nel vostro libro, sostenete che sono fenomeni atmosferici».
«Vostra Santità, basta sputare per terra per vedere la luce del sole riflessa. Ma solo uno sciocco penserebbe di aver scoperto una nuova stella».
Urbano aveva inclinato la testa facendo un cenno di assenso.
«C’è solo una cosa a cui non si accenna nel Saggiatore:
il sistema copernicano».
Galileo non aveva potuto fare a meno di guardarsi alle spalle. Le guardie svizzere erano una decina di passi più indietro.
Abbassò la voce comunque. «L’editto del 1616...».
«Se fossi stato papa, quell’editto non sarebbe mai esistito».
Galileo aveva stentato a convincersi di aver udito correttamente.
«Oh, non fate quella faccia, Galileo... A mio avviso non c’è niente di male nelle idee di Copernico, purché siano confinate al rango di ipotesi e mai espresse come verità assolute.
Sono ancora in troppi a Roma a credere che i pianeti siano mossi dagli angeli per considerarle diversamente. Sostenere che si tratta di un espediente matematico per conseguire la risposta esatta, anziché asserire che sia la vera distribuzione del sistema planetario, mi pare la soluzione più ragionevole».
«E cosa pensate dei gesuiti e della loro predilezione per il sistema ticonico?».
«Credo che stiate nicchiando di nuovo».
«Perdonatemi. Come entrambi sappiamo, il sistema di Tycho non è mai stato altro che un brutto compromesso».
«Un passo verso Copernico. Se devo inviare i miei sacerdoti e i miei monaci nel mondo, devo dotarli delle migliori armi contro l’ignoranza».
Galileo aveva avuto un brivido. «Un libro», aveva sussurrato.
«Avete bisogno di un libro a sostegno dell’astronomia copernicana che chiunque possa leggere».
«Conoscete nessuno che potrebbe scriverlo?».
«Vostra Santità, sarebbe un onore per me iniziarlo immediatamente».
Urbano aveva sorriso. «Forse un giorno commissionerò anche la vostra statua, Galileo».
Galileo per poco non scoppiò a ridere davanti alla figlia, che aveva gli occhi sgranati e bianchi come la luna piena, e la bocca aperta per lo stupore. La disse: «Lo scriverò in italiano, non in latino, e in un linguaggio semplice affinché possa leggerlo anche l’uomo comune. Il lettore sarà il mio giudice. Non includerò matematica nel libro vero e proprio, ma tutti gli argomenti saranno basati sulle osservazioni e i calcoli che ho raccolto nel corso della mia vita. Lo imposterò come un dialogo fra tre filosofi che si svolge in un dato numero di giorni. Uno dei filosofi sarà copernicano, un altro sarà uno sciocco aristotelico e il terzo sarà un uomo indeciso ma di buon senso. Il primo giorno stabilirò gli schieramenti di battaglia: l’aristotelico sosterrà che la Terra è intrinsecamente diversa da tutti gli altri corpi celesti, il copernicano invece farà notare che il telescopio dimostra che non è vero, che la Luna è simile alla Terra e probabilmente lo sono anche gli altri pianeti. Il secondo giorno, parlerò del duplice moto terrestre: la rotazione quotidiana, che ci dà il giorno e la notte, e l’orbita annuale, che ci dà l’anno. Il terzo giorno introdurrò le macchie solari, mentre il quarto e ultimo giorno i tre personaggi discuteranno delle maree. Alla fine di questa giornata, il nostro agnostico non avrà altra scelta che schierarsi con il copernicano. Non ci saranno dubbi. Finalmente ho l’occasione di dimostrare il mio valore».
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