Materia strana
Un fisico spagnolo ci conduce all’interno del CERN, svelandocene il lato umano. La rivalità tra scienziati permetterà che il pianeta venga inghiottito da un buco nero? La scienza e il coraggio riusciranno a impedire una nuova proliferazione delle armi nucleari? Un thriller mozzafiato di grande attualità.
- Collana: ScienzaLetteratura
- ISBN: 9788822015075
- Anno: 2012
- Mese: ottobre
- Formato: 13 x 21 cm
- Pagine: 416
- Tag: Letteratura Fisica Romanzo
Nel Laboratorio europeo per la fisica delle particelle, il CERN di Ginevra, sta per vedere la luce uno dei più grandi progressi scientifici di tutti i tempi: la scoperta di un nuovo stato della materia, il cosiddetto «plasma di quark». La direttrice del CERN, Helena Le Guin, teme però che insieme al plasma si stiano formando grumi letali di materia strana, in grado di scatenare una reazione a catena che potrebbe distruggere l’intero pianeta. Mentre Helena cerca disperatamente di far fronte alla crisi, a Ginevra arrivano Irene de Ávila, una giovane e promettente fisica teorica, e il maggiore Héctor Espinosa, un militare americano assegnato alla sede dell’ONU per lavorare a un progetto ultrasegreto legato alla non proliferazione delle armi nucleari: inizia così un’appassionante vicenda in cui convergono rivalità scientifiche, peripezie personali e rischiose operazioni di spionaggio che porteranno i protagonisti fino in Iran.
La morte e l’alba - DIECI ANNI DOPO – I. Gennaio - Il cielo sopra Central Park - Segnale di neutrini - Armageddon - Diagrammi di Feynman - Donna con cappello - L’Aleph - Stradivari - Piramide di Cheope - Questioni di protocollo - Città invisibile - Il bicchiere della staffa – II. Marzo - Messaggio cifrato - Due minuti a mezzanotte - Città di spie - Fuoco sacro - Le ragioni di una spia - Materia strana - Libri al rogo - Il gusto per il sangue - Mutazioni - Se si spegnessero tutte le stelle - Montagna del perdono - Bolle di materia strana - Dio del fuoco - Scala per il paradiso - Golpe preventivo - Città insonne - III. Maggio - L’arte del possibile - Effetto tunnel - La caduta degli Dei - Primavera a Persepoli - Tempio della scienza - Porta del paradiso - Nessun luogo sacro - Drago notturno - Virgilio all’inferno - Variazioni Goldberg - VI. Giugno - Congettura di Riemann - Metafore - Notturno - La morte e altre sorprese - Unicorno ferito - Ultimo haiku - Fiori del male - Tallone d’Achille - Galileo a Roma - Volo notturno per Ginevra - Aria da capo - Ringraziamenti - Nota dell’autore
Segnale di neutrini
La prima reazione di Héctor Espinosa quando il segnale di neutrini apparve sull’oscilloscopio fu controllare l’ora con lo stesso miscuglio di incredulità e sollievo di un atleta che termina una maratona. La seconda, fare un allegro gestaccio al reattore, dandosi sul bicipite una violenta manata che gli lasciò il braccio sinistro leggermente intorpidito. La terza, afferrare l’iPhone e mandare un messaggio a Velasco, digitando a tutta velocità sulla tastiera tattile.
C’è un segnale sull’oscilloscopio. RAN è partito.
A quel punto, si lasciò cadere sulla poltroncina. Gli occhi gli si chiudevano per la stanchezza. Pensò al vecchio. Magari fosse riuscito a vedere che la spuntava, tirando fuori i coglioni, come amava dire lui. L’intera operazione aveva richiesto meno di una settimana. Un giorno per caricare i moduli sul camion. Un altro per percorrere, alla velocità da tartaruga dei trasporti speciali, i seicento chilometri che separavano il laboratorio, nei pressi di San Francisco, dalla centrale nucleare di San Onofrio, a metà strada fra Los Angeles e San Diego. Un altro per predisporre l’hangar fornito dalla direzione dell’impianto vicino al reattore. Due per montare il dispositivo nella piscina, e altri due per cablarlo, mettere a punto la parte elettronica e avviare la raccolta dati.
Era contento. Contento e sfinito. Alzandosi, fu costretto ad appoggiarsi allo schienale della poltroncina fino a quando non riuscì a dominare il capogiro che, per un istante, gli aveva fatto danzare intorno le intelaiature metalliche degli scaffali su cui lampeggiavano i diodi multicolori della rete di controllo.
La tentazione di continuare a sonnecchiare fino all’arrivo di Velasco era davvero forte. Ma voleva fare un altro giro di accertamenti prima che il volto acido del colonnello comparisse sulla soglia.
Armato di un bloc-notes, uscì dalla piccola cabina di controllo e si diresse verso la piscina al cui interno si trovavano i moduli dello scintillatore liquido. Con calma, seguì tutto il perimetro del quadrato, di circa cinque metri di lato per dieci di profondità. Il rivelatore, un cubo di metacrilato dai lati lunghi un po’ più di tre metri, montato su un’armatura in fibra di carbonio, sembrava un enorme dado luccicante. Le informazioni venivano estratte tramite un fitto fascio di fibre ottiche che spuntava dall’acqua come il tentacolo di un fantomatico mostro marino e strisciava non illuminato lungo il pavimento di cemento fino a raggiungere la cabina.
Quando erano cambiate le cose? Ormai era quasi un decennio che lottava, ma durante il primo lustro i pugni gli erano piovuti addosso da tutte le parti. Gli era servito a ben poco, all’inizio, che Livermore fosse il centro di ricerca scientifica militare più importante della California, per non dire di tutto il Paese. Le notevoli risorse del laboratorio erano disponibili solo per i progetti «top», quelli che contavano sul beneplacito di generali e membri del Congresso. Nessuno prendeva sul serio Héctor Espinosa e la sua pretesa di controllare il combustibile di una centrale nucleare misurando i neutrini emessi durante le reazioni di fissione che avvenivano all’interno del reattore.
Fino al giorno in cui il senatore Pullman aveva assistito, per puro caso, a una delle sue conferenze. Quella sera stessa il grande uomo era apparso nel suo ufficio, accompagnato dal colonnello Velasco con la sua uniforme impeccabile, il suo volto butterato dal vaiolo e il suo malumore. L’avevano ascoltato per tre ore, Pullman rilassato e cordiale, Velasco teso e muto come una statua, ma entrambi pendendo dalle sue labbra. Prima di ritenersi soddisfatti, gli avevano fatto riempire una lavagna dietro l’altra e l’avevano fatto parlare fino a lasciarlo afono.
E all’improvviso c’era denaro in abbondanza, e il rivelatore aveva smesso di essere una ferraglia piena di rattoppi per trasformarsi nella Enterprise. I vecchi fotomoltiplicatori erano stati rimpiazzati da congegni minuscoli sviluppati a bordo della stazione spaziale, il kevlar sostituiva il nastro isolante, la fibra di carbonio l’alluminio, i microprocessori la giungla di transistor, resistenze e condensatori saldati a mano.
All’improvviso la NASA gli cedeva i suoi ingegneri, la direzione della centrale nucleare di San Onofrio gli offriva di usare il suo reattore per mettere a punto il radar di neutrini e una commissione presieduta dallo stesso senatore gli chiedeva dei risultati.
All’improvviso il colonnello Velasco gli danzava intorno a tutte le ore.
«Che fa ancora qui nel suo covo, maggiore? Dovrebbe essere a riposarsi. Domani la attende un lungo viaggio di ritorno a Livermore».
Héctor sussultò, rendendosi conto di essersi appisolato appoggiato alla gru che permetteva di manovrare i moduli del rivelatore.
Alzando il capo, si imbatté in un viso asciutto dalle guance perfettamente rasate, butterate dalle piccole macchie di vecchie pustole. Un ghigno sardonico, che aveva imparato a interpretare come un sorriso, distorceva le labbra sottili e sprezzanti.
«Mi mostri il segnale», disse Velasco incamminandosi verso la cabina che ospitava gli apparati elettronici e i computer. Héctor lo seguì. La caratteristica curva delle reazioni di neutrini nel rivelatore continuava a delinearsi sull’oscilloscopio.
«Eccolo».
«Accidenti! Congratulazioni! Sembra proprio che ce la faremo, alla fine, a prendere quei chierici per le palle», esultò il colonnello lisciando scrupolosamente le maniche della divisa.
«L’Iran non è l’unico Paese al mondo in cui il RAN sarebbe utile», replicò bellicoso Héctor.
«Vero! Non sarebbe male neppure tener d’occhio i coreani, i pachistani e i cinesi. Ogni cosa a suo tempo», esclamò il colonnello.
«C’è anche un altro modo di vedere le cose. Se il RAN venisse approvato dall’AIEA, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, verrebbe installato in tutte le centrali nucleari del mondo. Perché ostinarsi a usarlo per spiare alcuni Paesi quando potrebbe diventare parte dei meccanismi di controllo a favore della non proliferazione nucleare?».
Velasco fece un fischio.
«Magnifico discorso, maggiore! Peccato che non possiamo chiamare gli ambientalisti ad applaudirla!», esclamò.
Héctor strinse i pugni, trattenendo la rabbia. Sopportare il carattere velenoso del colonnello era parte del prezzo che doveva pagare per il miracolo.
Armageddon
Helena Le Guin controllò l’ora sul suo Patek Philippe. Le nove meno cinque. Le restava giusto il tempo di fumarsi una sigaretta sul balcone prima dell’arrivo di Alessandro Calvetti.
Cinque minuti esatti: per essere italiano, quell’uomo era di una puntualità insolita. Anche se, dopotutto, il suo vecchio amico era di Torino, il che ne faceva quasi uno svizzero, tranne quando si arrabbiava. Ed Helena era certa che sarebbe arrivato a quell’appuntamento molto arrabbiato.
Dal balcone del suo ufficio si intravedevano i vigneti che circondavano il CERN. A quell’ora del mattino erano avvolti nella foschia. Mentre fumava, la donna si strinse nel cappotto.
Un altro giorno di gennaio a Ginevra, freddo e uggioso. Il cielo, di un colore grigio sporco, pareva gravare a un palmo dal tetto dell’edificio.
Ebbe giusto il tempo di spegnere il mozzicone e accomodarsi alla scrivania prima che Alessandro facesse irruzione.
Come aveva previsto, era di pessimo umore.
«Te l’avevo detto, Helena! Ti avevo detto che quell’ipocrita ci avrebbe complicato la vita!», esclamò, lasciandosi cadere su una poltroncina senza nemmeno togliersi l’impermeabile.
Alessandro, il volto congestionato, brandiva la pipa per il fornello, come fosse una daga. Non era difficile immaginarlo nell’atto di usarla per pugnalare Sir James.
«Calmati, Sandro. Non sarà così grave...».
«Ah no? Guarda un po’ qui!».
Helena lanciò un’occhiata al libretto che Calvetti aveva gettato sulla scrivania. Aveva una copertina rossa e nera. Su una metà c’era una fotografia della Terra scattata dallo spazio, abilmente ritoccata per dare l’impressione che il pianeta fosse sul punto di esplodere in mille frammenti. Il titolo recitava:
Armageddon. Poco sotto, una postilla: Rischi della scienza irresponsabile.
Nella parte inferiore della copertina, il nome dell’autore:
Sir James Reeves.
«L’ennesimo elenco di calamità?».
«Non te l’immagini neanche! Nanoreplicanti, virus letali, il cambiamento climatico, una guerra termonucleare... ma il peggiore è il capitolo dedicato alle bolle di materia strana».
«Ti spiace farmi un riassunto? Non ho voglia di leggermi questo pamphlet».
«È il suo solito discorso, solo che questa volta il tono è molto più aggressivo. Afferma che l’acceleratore rappresenta una minaccia per il pianeta, e pretende che il Consiglio del CERN proibisca il programma ad alta intensità».
Helena si accasciò sulla poltroncina. Nella sua mente, il Reparto Autocontrollo funzionava a tutto vapore, ma gli operai che lavoravano freneticamente ne avevano ripreso in mano i martelli pneumatici.
«Credi che qualcuno lo prenderà sul serio?».
Calvetti sbuffò, esasperato.
«Reeves non è che un mercenario. Il CERN costa troppo agli Stati membri, e temo che alcuni non vedano l’ora di trovare una scusa per tagliare le spese. Non è un caso che un libello del genere sia stato pubblicato proprio quando molti delegati hanno iniziato a insinuare che il nuovo acceleratore è una macchina troppo ambiziosa».
«Nonché a meno di un anno dall’elezione del direttore generale», sospirò Helena.
«Elezione a cui si presenterà Jozef Linsen, predicando un’alternativa radicalmente opposta alla tua».
«L’alternativa dello struzzo!».
«La litania che i delegati vogliono sentire. Ridurre le spese e l’organico, contenere le ambizioni del laboratorio...».
«Jozef è un imbecille. La sua gestione di dieci anni fa è stata disastrosa e, se adesso riesce a vincere le elezioni, finirà solo per farci chiudere baracca e burattini».
«Probabilmente è proprio ciò che vogliono i suoi sostenitori».
Calvetti estrasse dalla tasca una sottile scatoletta metallica, la aprì e cominciò a caricare la pipa con il suo trinciato aromatico.
«Dal premio Nobel di Carlo Rubbia nel 1984, il CERN non ha più fatto una sola scoperta importante. Sono passati venticinque anni! Sono cinque lustri che non sforniamo niente che possa interessare ai politici. E gli ultimi quindici anni li abbiamo trascorsi costruendo un acceleratore che è costato il doppio del previsto», fece notare mentre schiacciava con attenzione il tabacco nel fornello servendosi di un esile pigino metallico.
«Lo so. L’LHC, il nostro grande acceleratore di particelle, ci ha rovinato», mormorò Helena.
«E che cosa ci ha procurato, in cambio? Dove sono le particelle supersimmetriche la cui scoperta doveva toglierci dai guai? Dov’è il bosone di Higgs?».
«Forse avremmo dovuto continuare con il programma dei protoni, Sandro. Forse ho sbagliato a passare ai nuclei di piombo prima del tempo».
«Non dirlo nemmeno! Era la scelta più logica. Erano due anni che non ottenevamo alcuna prova di nuovi fenomeni fisici.
Quanto avremmo dovuto aspettare? E se avessimo sprecato un altro decennio senza trovare nulla?».
«In tal caso, la propaganda di Reeves non sarebbe stata necessaria.
Se l’LHC non ci porta subito una scoperta, il CERN è condannato», commentò lei.
Calvetti le mostrò la pipa alzando le sopracciglia in un gesto interrogativo, chiedendo il permesso di accenderla. Melena prelevò dalla borsetta un portasigarette d’argento e un sottile Dupont d’oro massiccio. Quindi estrasse una Camel dal portasigarette, la accese e passò l’accendino all’amico.
«Ricordami di aprire la finestra, dopo. Heike mi sgrida se sente puzza di fumo».
«La tua segretaria ti sgrida?».
«Si preoccupa per la mia salute, sai com’è».
Alessandro annuì con la rassegnazione della persona abituata ad essere infastidita per il proprio bene e portò alla pipa la fiamma dell’accendino, facendola girare più volte sopra il tabacco. Helena aspirò, chiudendo gli occhi per assaporare la prima boccata di fumo nei polmoni. Come ogni volta che lo faceva, visualizzò la fabbrica in funzione a pieno regime nel suo cervello, ogni reparto intento alle proprie mansioni. Mentre lei discorreva con Calvetti, Autocontrollo si occupava di mantenerla rilassata e con un sorriso sulle labbra. Contabilità, nel frattempo, continuava a fare e rifare conti, addizionando e sottraendo i milioni di cui il CERN era debitore. Logistica non smetteva un istante di tramare, cercando di escogitare una strategia per contrastare il venefico attacco di Sir James. Infine, il Reparto di Amplificazione berciava idee, ordini e proibizioni attraverso altoparlanti potenti come quelli che, in quel momento, le risuonavano in testa.
«Non dovresti fumare tanto», le stavano dicendo in quel preciso istante.
Ogni tanto, Amplificazione era peggio di Heike.
«Quanto meno, con il programma dei nuclei di piombo abbiamo una speranza. Friedrich ha una prova quasi certa del plasma di quark. Siamo sul punto di fare una grande scoperta».
«Il premio Nobel non si vince con i “quasi”», rimbeccò Calvetti.
«Per questo abbiamo bisogno del programma ad alta intensità», ribadì lei.
«E per questo Sir James sostiene che a maggiore intensità corrispondono maggiori probabilità che si formino bolle di materia strana. Siamo fregati, cara mia».
«Non ci rimane altra scelta che contrattaccare. Carl Penrose mi ha invitata a partecipare a un dibattito con Sir James.
Credo che accetterò», proclamò Helena.
«Penrose? Stai parlando di Cosmos, il programma della BBC? Non è troppo rischioso?».
«È un’occasione di rimettere al suo posto il nostro caro filosofo».
«Non sarà facile. Darà fondo a tutti i suoi trucchi da retorica catastrofista».
«Sono pronta a confutarglieli uno a uno».
Alessandro fumava come una ciminiera difettosa. Aveva ragione, affrontare Sir James in diretta e nell’ora di massima audience era temerario. Ma non le restava altra scelta.
«Per quanto riguarda il programma ad alta intensità, condizioneremo l’approvazione al fatto che Friedrich dimostri che nel corso del suo esperimento non si riscontra la minima formazione di materia strana nell’LHC. Ho intenzione di impugnare questa argomentazione contro Sir James».
«È il terzo rapporto che pretendiamo da Friedrich nel giro di un anno. Si imbestialirà».
«Lo so, ma non vedo alternative».
«Se almeno potessimo contare su una teoria ragionevole!
È difficile sostenere una posizione quando non disponiamo di un modello per descrivere la formazione di materia strana», esclamò Calvetti picchiando rabbiosamente la pipa contro il cristallo del posacenere e spargendo in giro una nuvola di residui bruciacchiati.
«Questo non è del tutto vero. Abbiamo Cousins e de Ávila», obiettò Helena.
Le mani di Calvetti si contrassero come due pinze, i pollici che colpivano ritmicamente i medi e gli anulari. «Suvvia, cara.
Il modello teorico di Cousins e de Ávila è valido solo nelle stelle di neutroni!».
«Ho chiamato Bob Cousins stamattina. È convinto che sia possibile applicarlo anche all’LHC».
«E chi lo farà? Non mi pare che Bob sia granché attivo, da quando è rettore di Harvard».
Helena si fece ruotare la stilografica sul dorso della mano, dandole un colpo secco con il pollice a una delle estremità. Il pennino d’oro tracciò una circonferenza perfetta e si fermò indicando il torace dell’amico.
«Non te l’avevo detto? Irene de Ávila arriva al CERN la settimana prossima. Ho intenzione di chiederle di occuparsi di questa faccenda», buttò lì.
10 novembre 2013 | GALILEONET.IT |
01 luglio 2013 | CERNCOURIER |