Il giorno senza ieri
La storia di due uomini che hanno forgiato la moderna concezione del cosmo: Albert Einstein e Georges Lemaître. Vita privata, intuizioni e tormenti di due geni in un viaggio dalla Berlino alla vigilia della Prima guerra mondiale all’America degli anni ’30.
- Collana: ScienzaLetteratura
- ISBN: 9788822015136
- Anno: 2014
- Mese: maggio
- Formato: 13 x 21 cm
- Pagine: 288
- Tag: Letteratura Fisica Romanzo Storia della scienza Albert Einstein
Berlino, 1914. L’Europa marcia verso la guerra e la città è un tripudio di fervore nazionalista. Albert Einstein è uno dei pochi a comprendere che si prepara una carneficina, ma è sempre più isolato, sia politicamente che scientificamente: la sua rivoluzionaria visione dell’Universo viene accolta con scetticismo e la teoria che sta elaborando presenta difficoltà matematiche quasi insormontabili. Per dimostrare la validità della sua intuizione avrebbe bisogno di prove concrete, ma l’unica persona in grado di fornirgliele si ritrova coinvolta nello scoppio delle ostilità e rischia l’esecuzione. All’insaputa di Einstein, infatti, nel fango delle trincee del fronte occidentale arranca un religioso belga di nome Georges Lemaître che possiede il talento matematico necessario per aiutarlo a condurre la sua teoria verso una conclusione trionfante. Al termine della guerra, quando Einstein pubblica la sua Teoria della Relatività e assurge agli onori della scienza mondiale, Lemaître solleva la sconcertante ipotesi che la matematica della Relatività celi un inizio dello spazio e del tempo, un momento in cui l’Universo ha visto la luce, un giorno senza ieri. C’è da fidarsi delle sue teorie? O il religioso sta tentando di insinuare una versione della genesi biblica nella ormai celebre teoria di Einstein? Per contenere il caos crescente della sua vita, lo scienziato tedesco dovrà affrontare una serie di drammatiche scelte personali e professionali, non ultima quella tra il suo odio per la religione e un uomo che sembra comprendere la relatività persino meglio di lui.
I. Spazio - 1. Berlino, Germania - 1914 - 2. Feodosija, Impero russo - 3. Berlino - 4. Odessa, Impero russo - 5. Diksmuide, Belgio - 6. Berlino - 7. Diksmuide - 8. Berlino - 9. Ypres, Belgio - 10. Berlino – II. Tempo - 11. Berlino - 1916 - 12. Zurigo, Svizzera - 13. Berlino - 14. Ypres - 15. Berlino - 1917 - 16. Cambridge, Inghilterra - 1918 - 17. Berlino - 1919 - 18. Lovanio, Belgio - 19. Berlino - 1920 - 20. Cambridge - 21. New York City - 1921 – III. Curvatura - 22. Harvard, Cambridge, Massachusetts - 23. Berlino - 24. Firenze, Italia - 25. Berlino - 26. Mount Wilson, California - 27. Bruxelles, Belgio - 1927 - 28. Zurigo - 1930 - 29. Lovanio - 30. Berlino - 31. Harvard - 1931 - 32. Pasadena, California - Epilogo - Ringraziamenti
Berlino, Germania
1914
Se i ragazzi non avessero marciato in ranghi, il fisico li avrebbe scambiati per una folla tumultuante. Sfilando per la città in abiti a tre pezzi, le dita macchiate dai calamai dell’università, i giovani tenevano in alto le pagliette e cantavano una versione scalmanata di Deutschland Über Alles.
La parata aveva bloccato Berlino. Le auto decappottabili erano ferme a frotte sul ciglio della strada e impregnavano l’aria di esalazioni mentre gli occupanti allungavano il collo per guardare.
Anche gli omnibus erano imbottigliati, i cavalli che scuotevano il muso su e giù e soffiavano, e i passeggeri che si spenzolavano fuori dai finestrini per applaudire, costringendo gli studenti ad alzare la voce. Qua e là, quando un’acclamazione non bastava, un pugno chiuso colpiva il cielo.
Einstein era incappato nella baraonda mentre si affrettava per la via assorto nei suoi pensieri. Sbuffando disgustato, abbassò lo sguardo e procedette con determinazione controcorrente. Era impossibile evitare le spallate: i partecipanti dovevano essere un centinaio o anche più, spavaldi e turbolenti. Sbucando in fondo al branco, si ritrovò circondato da una spicciolata di adulti che incitavano gli studenti.
Sbuffò di nuovo, questa volta più sonoramente. Quanto meno, i ragazzi avevano la scusa della giovinezza.
«Albert! Stai andando nella direzione sbagliata».
La voce lo colse di sorpresa. La figura allampanata di Max Planck era ferma sul marciapiede e lo guardava attraverso occhiali dalla montatura metallica. L’uomo gli rivolse un ghigno da sotto baffi folti e ingrigiti. «Bella giornata, vero?».
Einstein storse le labbra. «Non definirei bello quell’affare», commentò facendo scattare un pollice in direzione del corteo.
Planck alzò il cappello per passarsi un fazzoletto sul cocuzzolo della testa. «Torni in università?».
«No, non posso fermarmi. Sono già in ritardo».
«Niente di grave, spero». Planck rimise il cappello.
Einstein si costrinse a pronunciare un nome. «Mileva».
L’altro si rannuvolò. «In bocca al lupo».
Accennando un saluto col capo, Einstein si affrettò ad allontanarsi.
Nel giro di pochi istanti raggiunse la propria meta, una dimora di pietra a tre piani nella parte più opulenta della città. L’edificio trasudava potere e successo. La nera porta lucida si spalancò prima che il fisico fosse arrivato in cima agli scalini, privandolo della possibilità di ricomporsi, e sulla soglia apparve la mole di Fritz Haber.
Come Planck, anche Haber era calvo e occhialuto: a quanto pareva, per gli ultracinquantenni dell’Institut era la moda. Al contrario di Planck, però, Haber sarebbe stato bene in uniforme. Era robusto, impettito, gli occhi che ardevano di sicurezza. Il viso pieno era lievemente accigliato.
«Scusa il ritardo, Fritz. Le strade sono intasate».
«Un altro corteo?». Alzando gli occhiali, Haber scrutò la via con interesse.
Einstein annuì. «Lo fanno sembrare un carnevale».
«Beh, il popolo non può essere tenuto a freno in eterno».
Einstein soffocò una replica. Non era quello il momento di mettersi a discutere sull’imperialismo. Allungando lo sguardo oltre le spalle di Haber, gettò un’occhiata nell’atrio vuoto. «È qui?».
«Mileva? Sì. Vogliamo cominciare?».
Raddrizzate le spalle, Einstein annuì rigido e seguì il collega, che lo condusse in soggiorno tra poltrone e cuscini imbottiti, arazzi e dipinti. Sulla credenza era esposta una col lezione di piatti ornamentali decorati con scene di caccia in stile teutonico e un mazzo di fiori estivi appena recisi abbelliva il camino.
Einstein represse un guizzo di invidia, non per l’arredo in sé ma per il successo che rappresentava. Lo studio di Haber sull’azoto aveva portato alla fabbricazione del fertilizzante artificiale.
L’uomo era divenuto un eroe, la reputazione e la fortuna assicurate. Ormai poteva compiacersi della propria ricerca. Einstein scacciò l’immagine dei suoi documenti, incompiuti sulla scrivania di casa, zeppi di cancellature e correzioni.
Il padrone di casa sprofondò in una delle morbide poltrone e gli indicò di fare altrettanto, ma Einstein riuscì a malapena ad appollaiarsi sul bordo. Indossava i suoi abiti migliori: un completo scuro fuori stagione, cravatta e colletto alla diplomatica appena inamidato, una tenuta che lo faceva sempre sentire a disagio.
«Ricordati, Albert, oggi non sono qui come collega, ma come amico», ronzò sommessa la voce pastosa di Haber.
«Lo so, Fritz».
Un tintinnio di porcellana attrasse l’attenzione di Einstein.
La minuta moglie di Haber stava entrando con il vassoio del tè.
«Clara, come sta?», la salutò Einstein.
«Bene, grazie». La donna versò il tè senza incrociare il suo sguardo, quindi lasciò il locale in silenzio.
Il fisico sorbì un sorso della bevanda. Mentre riappoggiava la tazza, quest’ultima sbatacchiò contro il piattino. «Fritz, questa situazione deve finire. Sei stato molto generoso ad accogliere Mileva e i ragazzi, non potrò mai ringraziarti abbastanza, ma adesso devono andarsene».
«Sst, Albert», lo calmò l’altro. «Abbiamo già concordato una soluzione».
Einstein annuì torvo. «Allora vediamo di fare in fretta. Devono tornare in Svizzera senza ulteriore indugio. Mileva lo sa.
Ci siamo allontanati troppo. Io sono consumato dal lavoro.
Questo teorema dentro di me... è vivo, posso sentirlo scalciare, irrequieto. Devo partorirlo o mi annienterà. Mileva sa benissimo che la sua presenza mi intralcia».
«Albert, ascoltami. Non è necessario che se ne vada. Ha accettato le tue condizioni».
Einstein lo fissò. «Acconsentirà a uscire dal mio studio senza proteste quando glielo chiedo?».
Haber annuì.
«E smetterà immediatamente di parlarmi non appena glielo dirò?».
Haber annuì di nuovo, l’espressione che si inacidiva. «E tutto il resto, esattamente come hai scritto», aggiunse spiegando il foglio con l’elenco vergato da Einstein e mettendolo a fuoco. «Deve pulire e tenere in ordine il mio studio senza mettere mano ai documenti. Deve viaggiare separatamente da me.
Deve provvedere al mio bucato e prepararmi tre pasti al giorno.
Non si deve aspettare intimità né mi deve rimproverare in alcun modo. Quando glielo ordino, deve...».
«Basta così, ti prego». Einstein ruotò la testa da un lato all’altro nel tentativo di celare l’imbarazzo. Sentendo sciorinate in quel modo le proprie pretese, quasi non riusciva a credere di aver redatto un documento tanto cinico. Nell’isolamento dello studio, la penna aveva tracciato l’esorcismo di cui la sua mente aveva avuto bisogno, ma risentirlo così... Aveva preteso che la moglie gli obbedisse come un cane. Gli venne la pelle d’oca.
La sera in cui aveva compilato quell’elenco, i bambini erano stanchi e litigiosi, lo scalpiccio dei loro piedi per casa assordante.
Aprendo la porta dello studio, Einstein aveva scorto la moglie in corridoio mentre giocava con loro ad acchiapparello o qualcosa del genere. «Non puoi tenerli tranquilli?».
A quel punto, Mileva l’aveva assillato perché andasse a cena, o il cibo sarebbe diventato meno appetitoso.
«È impossibile che quello che cucini tu non sia appetitoso!», aveva replicato lui stizzito, voltandole le spalle.
Piazzandosi le mani sui fianchi, la moglie aveva dato il via alla lite. La mattina successiva, Haber si era offerto di ospitare la famiglia fino a quando lui e la moglie non avessero risolto i loro problemi.
Einstein doveva aver abbassato lo sguardo durante quelle fantasticherie perché quando si riebbe vide le sue scarpe, consumate là dove si era scordato di lustrarle e impolverate dalla camminata attraverso la città. Strascicando i piedi nel vano tentativo di nasconderle, alzò gli occhi e si ritrovò a guardare dritto in quelli di Mileva, che lo stava fissando dalla soglia.
Aveva appena lavato i capelli e indossava un abito nuovo color panna, con le maniche a sbuffo e un nastro al collo legato in un fiocco. Richiamava un genere che era solita sfoggiare in passato. Forse non era nuovo; forse era stato uno dei suoi abiti preferiti quando ancora erano felici insieme. Clara le stava alle spalle come un’ombra.
I due uomini si alzarono.
«Hai vinto, Albert», concesse Mileva con voce ferma.
«Accetto le tue condizioni».
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