Il declino dello Stato
Riflessioni di fine secolo sulla crisi del progetto moderno
prima edizione ottobre 1998
Nell'epoca della mondializzazione dell'economia e del profitto, una lucida critica della riduzione della società a «macchina totale» e dell'uomo a «materia prima» della produzione.
- Collana: Strumenti / Scenari
- ISBN: 9788822053015
- Anno: 2006
- Mese: marzo
- Formato: 14 x 21 cm
- Pagine: 376
- Tag: Storia Filosofia Filosofia politica Stato
Un'analisi di esemplare lucidità e essenzialità, che pone sotto gli occhi di tutti quella riduzione della società a «macchina totale» e dell'uomo a «materia prima» della produzione che sempre più sperimentiamo. Si tratta naturalmente della produzione così come si configura nell'era tecnologica, cioè nel tempo della rivoluzione informatica per la quale «i segni si scambiano fra loro senza scambiarsi più con qualcosa di reale». Il discorso di Barcellona si fa tanto più pregnante quando egli, dopo aver avanzato critiche alle «soluzioni» pensate da Heidegger, Habermas, Luhmann, Jünger ecc., esamina da vicino le contraddizioni che caratterizzano da un lato il progetto di liberazione marxiano, dall'altro il formalismo giuridico e lo Stato di diritto liberale. Barcellona propone un suo progetto di ricostituzione della politica, animato da una rinnovata «passione democratica», che merita di essere assunto come referente di un'ampia discussione.
Capitolo primo
La società moderna come società giuridica
l. Scienza e diritto: i due lati della parabola moderna
Mai, come nella fase attuale, si è sentito da più parti il prepotente bisogno di affermare che ci sono «diritti dell’uomo» che gli Stati e i poteri costituiti non possono violare né sacrificare, e tuttavia niente consente più di attribuire forma ed effettualità a questi diritti. Niente sembra consentire di dare un fondamento alla stessa istanza di libertà che pure viene invocata come un’esigenza insopprimibile. Non riusciamo a identificare il «portatore» di questa pretesa: le stesse nozioni di uomo e umanità sembrano genericità insopportabili. Abbiamo l’impressione, sia pure confusa e contraddittoria, di essere giunti a un punto cruciale dell’esperienza giuridica moderna e della stessa nozione di modernità dentro la quale si sono venuti radicando e spegnendo gli interrogativi più inquietanti sul senso e il destino dell’individuo.
Lo scenario che si apre a chi prende come riferimento i modelli e le letture del mondo contemporaneo, proposti nella riflessione dagli scrittori del nostro tempo, non può non suscitare sgomento: la dissoluzione del soggetto si è compiuta lasciando dietro di sé una costellazione di sensazioni puntiformi.
Non c’è più storia, non c’è motore, il processo è ormai – come si aff`erma anche in campo marxista – un processo senza soggetto né fine. Sembra essersi per sempre interrotto ogni rapporto dialettico tra le forme giuridiche e gli individui in carne e ossa. La comunicazione tra mondo della vita e mondo delle forme, di questa coppia che per tanto tempo ha mantenuto l’illusione di un rapporto tra il processo di oggettivazione dei saperi e delle conoscenze e il divenire dell’esperienza umana, si è interrotta: il vissuto individuale e collettivo sembra ridotto per sempre a pura emergenza, occasionalità senza forma, eccezione senza dignità.
Eppure un’esperienza ci resta ancora da fare, in questa congiuntura del mondo contemporaneo: è quella di un paradosso estremo, di un paradosso che non sembra ancora completamente dominabile dal sistema.
Non è forse l’emergenza, così prepotentemente presente nell’esperienza contemporanea, che mette a fuoco ancora una volta il problema della positività del diritto, del suo valere in forza dell’arbitrio, del comando dell’autorità, e che non riesce più a vestire i panni di una razionalità oggettiva, di una misura universale e pacificante?
Appare in tutta la sua evidenza la doppia vita del diritto: questo suo essere uno strumento di ordine artificiale, convenzionale e contingente, destinato a realizzare la pace sociale e a istituire un ordine per sedare il conflitto degli interessi; e questo suo essere, allo stesso tempo, ridotto sempre più a comando arbitrario, a governo di un’emergenza perpetua in cui la devianza e la violenza sembrano rovesciarsi continuamente sulla «normalità» del sistema fino a minarne la continuità e a evocare l’ipotesi di una catastrofe latente. Non si consuma anche qui, nell’esperienza giuridica, il significato del progetto moderno di controllare i processi reali e di governare la molteplicità del mondo?
Non si realizza pure in questa esperienza estrema della giuridicizzazione del caso particolare l’ambigua coesistenza del massimo di potenza e di dominio e del massimo di impotenza e di precarietà? Non è forse anche la scienza assediata dal rischio di fuga dell’energia che tiene sotto controllo nei suoi laboratori? E in ogni caso quale prezzo si paga affidandosi alla strategia tattico opportunistica della ragione calcolistica?
C’è una profonda solidarietà fra il progetto scientifico moderno e la concezione dell’ordine giuridico, come ordine artificiale positivo e contingente, e l’esito singolare al quale sembrano pervenire.
La scienza moderna nasce e si sviluppa come istanza di costruire un mondo umano, non estraneo, non caotico, non pericoloso come il mondo naturale. La scienza nasce cioè sul presupposto di una mancanza di leggi necessarie, sull’assenza di necessità, si fonda sul caso, sull’imprevedibilità dell’evento. La sua natura è ipotetica proprio per essere disponibile all’irruzione dell’imprevisto e dell’imprevedibile. La scienza nasce come apertura all’evento, all’innovazione, al divenire, nasce come riconoscimento dell’accadimento; e tuttavia la sua vocazione è quella di negare immediatamente questa apertura, di bloccare l’innovazione, di anticipare il divenire e neutralizzarlo. Il suo destino è tutto qui, in questa alternativa drammatica: se vuole conferire ordine al mondo, al divenire, al movimento, la scienza deve bloccare il caso e negarlo, perché deve normare, misurare, impedire il ritorno del caos, del disordine naturale; ma, per essere scienza moderna, scienza senza leggi metafisiche, deve fondarsi sul caso, sull’esperienza dell’innovazione. La scienza deve garantire il caso e la libertà contro il ritorno della necessità, dell’ordine cosmico immutabile, del fato antico, e tuttavia non può realizzare questa sua vocazione senza proporsi essa stessa come uno statuto di necessità, come continuo esorcismo del caso.
Perfettamente analoghi sono i paradossi della norma giuridica e del moderno Stato di diritto. Il diritto positivo, contingente, arbitrario, presuppone l’inattingibilità della giustizia come valore oggettivo, come legge necessaria e tuttavia deve affermarsi come unica giustizia possibile, come forma ultima della pacificazione, come neutralizzazione di ogni possibilità di nuovo disordine e della stessa libertà di una decisione innovante che rompa la compattezza del sistema.
Il diritto moderno è storico e positivo, arbitrario, convenzionale e mutevole, ma insieme è destinato a bloccare, anticipare, programmare il mutamento, a essere il programma dell’eternità del mondo.
Il paradosso del diritto e della scienza è singolarmente questo implicito esito metastorico del processo di sradicamento dei vincoli etico naturalistici che avevano condizionato e assediato il vecchio sapere e il vecchio diritto. Scienza e diritto moderni sono figli della storia, dell’irruzione dell’imprevisto e sono allo stesso tempo il blocco dell’imprevisto e dell’innovazione, la fine della storia come discontinuità e rottura. La libertà sancita e difesa da tutti gli ordinamenti è concepita come un prodotto della storia e come fattore della storia; tuttavia il trionfo della libertà sembra realizzarsi, nelle moderne visioni del diritto e nelle teorie sistemiche, come negazione della storia, come negazione della libertà di produrre avvenimenti che non siano già anticipati, programmati e calcolati. La libertà che rimane è pura contingenza, destinata a non esprimere forma (nuova). La società attuale è una massa amorfa di individui che rincorrono febbrilmente un’identità impossibile: il mondo degli oggetti consumabili governa ormai la loro vita secondo una logica puramente quantitativa. L’esaltazione ottocentesca del soggetto come centro e motore dell’esperienza si è dissolta nella brulicante anomia delle metropoli dei desideri impossibili. Il diritto moderno costruito per il trionfo della soggettività universale dell’individuo ha finito con il sancire la sua irrappresentabilità come centro di unificazione dell’esperienza e la sua dissoluzione nei frammenti di un’esistenza che esprime di volta in volta bisogni emergenti e desideri inappagati.
Si pone la domanda: è tutto ciò il compimento di un destino evolutivo segnato dall’incompletezza biologica dell’Homo sapiens oppure l’esito di un processo che ha all’origine un atto fondativo e una decisione costituente ormai apparentemente rimossi?
10 giugno 2018 | uccronline.it |