La nonna di Pitagora
L'invenzione matematica spiegata agli increduli
prima edizione 2013
ristampa
prefazione di Maurizio Matteuzzi
Dieci racconti fantasiosi e divertenti sulle grandi costruzioni concettuali del pensiero matematico, seguiti da dieci biografie (un po’ serie) per conoscere alcuni fra i maggiori protagonisti della matematica di tutti i tempi.
- Collana: Fuori Collana
- ISBN: 9788822041722
- Anno: 2014
- Mese: gennaio
- Formato: 14 x 21 cm
- Pagine: 192
- Note: illustrato a colori
- Tag: Scienza Matematica
Che reazione avremmo se, d’improvviso, scoprissimo che la dimostrazione del teorema di Pitagora non è dovuta al celebre matematico di Samo, ma alla sua geniale nonna? Si tratta di una pura invenzione narrativa, certo, per dimostrare che la matematica è fatta da esseri umani, anche se ad alcuni questa banale ma importante osservazione sembra sfuggire. Le dieci storie di fantasia raccontate in questo libro sono create e calibrate intorno a personaggi reali e fatti quasi realmente avvenuti.
Nella seconda parte dell’opera la storia viene recuperata con rigore in dieci biografie, ciascuna delle quali presenta il personaggio immerso nel suo vero ambiente storico e scientifico.
Prefazione di Maurizio Matteuzzi - Premessa – I FATTI - La nonna di Pitagora - La sorella di Archimede - Lo zio di Euclide - Ipazia e il monaco - Gaetana e il mendicante - Lo schiavo di Eudosso - Talete e i gemelli - Cartesio, la lussuria e il prete - La moglie di Euler - La governante di Peano - I PERSONAGGI - Pitagora - Archimede - Euclide - Ipazia - Maria Gaetana Agnesi - Eudosso - Talete - René Descartes, Cartesio - Leonhard Euler - Giuseppe Peano - Bibliografia
La nonna di Pitagora
Quando Pitagora nacque, subito tutti dissero che sarebbe stato un bambino bello e intelligente e che, da grande, avrebbe viaggiato molto. Ma, certo, nessuno sospettava che avrebbe percorso mezzo mondo – e a piedi, poi, perché a quei tempi non c’era l’aereo, né il bus, né il treno e nemmeno l’automobile (nessuno aveva pensato ancora di costruire gli aeroporti, né le stazioni e nemmeno le autostrade).
Nacque in un’isoletta dell’Egeo, grande un po’ più del doppio dell’Elba, vicino alle coste di quella che oggi si chiama Turchia; l’isola si chiamava (e si chiama ancora oggi) Samo. Poiché a quei tempi non c’erano i cognomi, per distinguerlo da tutti gli altri Pitagora, lo chiamarono Pitagora di Samo; ma siccome si accorsero subito che di Pitagora, a Samo e nelle isole vicine, non c’era che lui, finirono con il chiamarlo solo Pitagora.
La nonna materna viveva a casa sua; il papà faceva il commerciante ed era sempre in giro in barca a vendere i suoi prodotti con un paio dei figli maggiori; la mamma si occupava della casa, dei tanti altri fratelli e sorelle e della piccola fattoria. Dunque, Pitagora stava assai più spesso con la nonna che con i genitori. Si affezionarono tanto, l’un l’altro, che giocavano insieme, passeggiavano insieme e chiacchieravano tutto il santo giorno.
A quei tempi non c’era la televisione, non c’era il Black-Berry, nemmeno l’iPod, eppure la gente riusciva a vivere lo stesso; per comunicare, incredibile, i ragazzi dovevano aspettare di vedersi faccia a faccia e si parlavano; sì, c’è da non credere, si parlavano, non si scrivevano messaggi allegando faccine turbate, dubbiose o sorridenti, agitando freneticamente i due pollici su una minuscola tastiera tenuta fra le mani congiunte.
A quei tempi non c’era nemmeno la scuola e dunque ogni famiglia s’arrangiava a modo suo per fare sì che i bambini imparassero qualcosa, per non farli crescere come buzzurri. La nonna di Pitagora era una persona colta (sapeva leggere e scrivere, sapeva l’aritmetica e la geometria, interi brani dell’Iliade a memoria e conosceva la musica), venne quindi deciso di affidare a lei l’istruzione di Pitagora.
Non è ben certo come si chiamasse la nonna di Pitagora; c’è chi dice Eustorgia, chi dice Eulalia, chi dice Ermenegilda; non lo sapremo mai. Per far prima, data l’incertezza, la chiameremo nonna E.
Pitagora e nonna E studiarono insieme il greco, la loro lingua materna, impararono la storia (a quei tempi ce n’era assai meno da imparare perché non c’erano ancora stati i Romani, né gli Arabi, né il Sacro Romano Impero, né il Medioevo, né la conquista dell’America, né la Prima e dunque nemmeno la Seconda guerra mondiale), la geografia (a quei tempi ce n’era assai meno da imparare perché a Samo non sapevano che esistesse l’America, né l’Australia; credevano che l’Africa fosse poco estesa e dell’Asia conoscevano solo le regioni più occidentali). Non c’era nemmeno l’inglese, né l’italiano o il francese. Nemmeno il latino che stava pian piano nascendo proprio in quel periodo. E poi studiarono insieme l’aritmetica e quel bel po’ di geometria che si conosceva allora.
La nonna raccontava tutto a Pitagora sotto forma di narrazione fantastica, giocava spesso con lui nelle ore di lezione, non c’erano né interrogazioni né compiti in classe, tanto mica doveva dargli un voto. In compenso, c’erano molti momenti di ricreazione. Non c’erano nemmeno i quaderni, perché nessuno li aveva ancora inventati, né le penne biro, né le matite. Dunque, tutto si faceva a voce, non esistevano neanche i libri. Tutto a voce e a memoria.
Pitagora si divertiva molto, nonna E più di lui. Siccome non c’erano orari fissi di lezione, né bidelli, né direttore, né scuola, né aula, se ne andavano a spasso; e, quando si stancavano, s’inventavano ore di ricreazione, appunto, e se ne andavano al bar a bere qualcosa di fresco. Anzi, no, non c’erano nemmeno i bar e non c’erano le bevande gassate; allora andavano a spasso per la campagna o sulle basse colline o sulle spiagge (a quei tempi le spiagge erano deserte in tutte le stagioni perché nessuno aveva ancora inventato le vacanze, gli ombrelloni e i bagnini).
Nonna E portava con sé un piccolo cesto con dentro pitta, acqua insaporita, frutta e dolciumi vari; e, quando erano stanchi, si fermavano a bere e mangiare.
In una scuola così, per forza, tutti imparano in fretta; e così Pitagora divenne, in men che non si dica, il bambino più colto dell’isola di Samo; si divertiva tantissimo con nonna E, le faceva mille domande e, quando lei non sapeva rispondere, s’inventavano insieme le risposte, le più verosimili possibile.
Certo, anche Pitagora, come tutti i bambini del mondo, aveva la sua materia preferita ed era, guarda un po’, la matematica. Nonna E era particolarmente brava in matematica, però in breve credette di non aver più nulla da insegnare a Pitagora e ne parlò con i suoi genitori, in una delle rare volte in cui li vide insieme, in occasione del matrimonio della sorella più grande di Pitagora, la famosa cantante e danzatrice Pistimbrilla.
Nonna E suggerì di mandare Pitagora a scuola di matematica e filosofia dal più famoso saggio di tutto il mondo, l’anziano Talete che viveva sulla vicina costa, a Mileto, e che perciò si chiamava Talete di Mileto (sempre per via della mancanza dei cognomi).
I genitori, indaffarati come pochi altri genitori al mondo, neanche la ascoltarono e delegarono ogni decisione a nonna E; questa, che aveva tanti bei soldini da parte sotto il materasso, decise di fare il viaggio con Pitagora per presentarlo di persona a Talete. Bisognava prendere una nave a vela, grande, non come quelle delle crociere ma, insomma, sempre abbastanza grandina. Partirono dal porto di Samo un mercoledì mattina (in verità, i mercoledì ancora non si chiamavano mercoledì, anche se i Greci adoravano già il dio Mercurio che loro chiamavano Hermes) e sbarcarono a Mileto il sabato sera. Pitagora era eccitatissimo dal viaggio, il suo primo viaggio; e non vedeva l’ora di dormire in albergo, per la prima volta in vita sua, e di mangiare in una taverna, sempre per la prima volta in vita sua. Nonna E era eccitata invece dall’idea di conoscere il grande saggio, filosofo, matematico, astronomo Talete, di cui aveva tanto sentito parlare.
Non gli aveva potuto telefonare prima, per avvisarlo del loro arrivo, perché nessuno aveva ancora avuto l’idea di inventare il telefono e ancor meno il cellulare; avrebbe voluto comunicare con lui via internet, mandandogli una e-mail, ma... Aveva tanto cercato la pagina di facebook di Talete, ma senza internet non era stato possibile. Per farla breve, insomma, a quei tempi per parlare con una persona bisognava viaggiare, andare a cercarla a casa sua, bussare (ovviamente il campanello...) e sperare che fosse lì.
Ebbero fortuna; il giorno dopo chiesero dove abitasse Talete, tutti a Mileto lo sapevano, e furono presto a casa sua; non c’era, ma il vecchio servo sdentato che li accolse assicurò che il Maestro sarebbe rientrato di lì a poco.
Così fu. Il resto non ve lo stiamo a raccontare, perché avvenne senza la presenza di nonna E che è la nostra protagonista; lasciò Pitagora a servizio e come studente di Talete e tornò a Samo ad aspettarlo (a quei tempi si usava così: ve l’immaginate dover preparare da mangiare e pulire le scarpe alla vostra insegnante di matematica, tutti i giorni? Ed essere frustati dal servo se le scarpe non sono ripulite a meraviglia? E poi, per giunta, fare i compiti durante la notte?).
Passarono anni. Talete fece viaggiare molto, per tutta l’Asia, Pitagora che imparò tante cose, la magia, l’astronomia, l’astrologia (a quei tempi c’era gente che ci credeva davvero, pensate un po’), la geometria, l’aritmetica, e lo lasciò libero di ritornare a casa solo quando Pitagora ne seppe quanto lui. Adesso non era più un bambino, ma un ragazzo assai sveglio, molto forte fisicamente, intelligente e simpaticissimo.
Gli anni erano passati anche per nonna E. Quando Pitagora tornò a casa, lei lo stava aspettando nel giardino, seduta sul bordo della fontana, lo aveva aspettato tutti i giorni per anni e anni e anni. Si abbracciarono a lungo, entrambi con le lacrime agli occhi per la commozione.
Lei era avida di sapere che cosa avesse fatto, dov’era andato, che cosa aveva imparato; e lui aveva una voglia matta di dirglielo... E dunque passarono giorni interi, lui a raccontare, lei a fare domande insistenti, piena di curiosità.
Finché, un giorno, nonna E gli fece una domanda piena di amore: «Ma qual è la cosa più bella che hai imparato?», gli chiese. E lui: «Le cose belle sono quelle che impari da te, che ti crei tu. E ce n’è una, nonna, davvero impressionante».
Erano sulla spiaggia, quindi il disegno venne fatto con il dito indice per terra incidendo nella sabbia; d’altra parte, non esistevano ancora i fogli da disegno, né gli schermi dei pc, né le lavagne di pietra per il gesso, né quelle di carta, né le Lim, e dunque non c’erano poi molte altre opzioni.
Pitagora eseguì con il dito sulla sabbia il seguente disegno:
«Vedi, nonna? Se prendo un triangolo rettangolo e ci disegno sopra questi tre quadrati, ci dev’essere per forza una relazione che unisce le tre lunghezze dei lati; ma Talete non la conosce, né nessuno dei maestri indiani, persiani, afgani, cinesi che ho interpellato. Mi ci sto scervellando inutilmente da anni, cara nonna».
La nonna, anziana ma non fiacca, magra ma non debole, si alzò, eretta e ferma; tirò l’orecchio di Pitagora, ma amorevolmente, fino a farlo alzare, lo guardò con viso dolce, e gli disse:
«Devo proprio insegnarti tutto, vero? Ascolta bene, ignorantello, adesso ti spiego come stanno le cose».
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