Il polmone blu
Salvare gli oceani per combattere il riscaldamento globale
prefazione di Riccardo Iacona
Gli oceani sono stati finora i nostri migliori alleati nella lotta ai cambiamenti climatici, ma il prezzo è altissimo. Per quanto ancora potremo andare avanti così? Un viaggio-inchiesta nel “polmone blu” del pianeta con interviste esclusive e reportage da tutto il mondo.
- Collana: SottoInchiesta
- ISBN: 9788822049032
- Anno: 2023
- Mese: marzo
- Formato: 14 x 21 cm
- Pagine: 176
- Tag: Ambiente Cambiamenti climatici
Un respiro su due lo dobbiamo all’oceano. È lui a produrre la metà dell’ossigeno del pianeta. E gli oceani sono stati finora i nostri migliori alleati nella lotta ai cambiamenti climatici, assorbendo un terzo dei gas serra e il 90% del calore prodotto dalle attività umane. Se il riscaldamento globale non è ancora fuori controllo, è perché gli oceani ci stanno salvando da condizioni di vita insostenibili.
Ma il prezzo è altissimo: riscaldamento e acidificazione delle acque, perdita di biodiversità e produttività, anossia. Per quanto ancora potremo andare avanti così? Eventi estremi sempre più intensi e frequenti, e innalzamento del livello dei mari sono solo un acconto di quello che potrebbe succedere nei prossimi decenni.
Un viaggio nel “polmone blu” del pianeta tra inchieste, interviste esclusive e reportage da tutto il mondo: l’Artico, sentinella dei cambiamenti climatici, le grandi città costiere degli Stati Uniti, il Mediterraneo sempre più caldo, Venezia.
Non diamo per scontato nulla, non esiste un pianeta B.
di Riccardo Iacona
INTRODUZIONE
1 IL MARE E IL CLIMA
Un respiro su due
Meno ossigeno
Sette bombe atomiche
Metà della Terra
Acidificazione
Un aiuto inaspettato
2 LOUISIANA ANNO ZERO
Katrina: il punto di non ritorno
The day after tomorrow
Il grande muro della Louisiana
L’autostrada degli uragani
I primi migranti climatici degli Stati Uniti
La coda del tornado
Oceani più caldi, tempeste più forti
3 ATLANTIDE MIAMI
La città più vulnerabile del mondo
all’innalzamento del mare
Modalità sopravvivenza climatica
La sfida dell’adattamento
Soluzioni dalla natura
Isole Keys sul filo del rasoio
Il sogno immobiliare
Gentrificazione climatica
Ingiustizia climatica
4 IL MONDO SOMMERSO
Pacifico in prima linea
Promesse tradite
La COP dell’Africa
Nel Paese delle maree
La grande cecità
Pakistan, simbolo del nuovo clima
5 L’ELEFANTE NELLA STANZA
Una nuova finanza del clima
Una buona notizia
Una cattiva notizia
Realpolitik
Il dilemma del prigioniero
Business as usual
6 IL DESTINO AI POLI DEL PIANETA
Underwater
Il risveglio del gigante
Un’accelerazione improvvisa
Il centro del mondo
7 ARTICO EFFETTO DOMINO
Groenlandia, il mare sale
La fine del ghiaccio marino
Caldo Artico
Il mistero del granchio delle nevi
8 HOTSPOT MEDITERRANEO
Mediterraneo effetto serra
Operazione mare caldo
Venezia e la caduta dei giganti
Il respiro del Mediterraneo
CONCLUSIONE
24 dicembre 1968, vigilia di Natale. Missione spaziale statunitense Apollo 8. «Hai una pellicola a colori, Jim? Passami un rotolo di colore, presto, per favore. Guarda laggiù!» dice Anders. L’astronauta posiziona le macchine fotografiche per immortalare lo spettacolo che si presenta davanti ai suoi occhi durante l’orbita intorno alla Luna. Con una Hasselblad teleobiettivo da 250 mm, Bill Anders ci consegna una delle immagini più iconiche del pianeta. Lo scatto numero di serie AS8-14-2383HR della NASA passa alla storia con il nome di Earthrise. L’alba vista dalla Luna.
Per la prima volta l’uomo osserva la Terra da una nuova e inedita prospettiva. È l’immagine che cambia per sempre il modo in cui guardiamo al pianeta. Non solo perché ce lo mostra in tutta la sua fragilità, immerso nell’Universo, ma perché ci rende consapevoli di un fatto tanto semplice quanto evidente e ricco di conseguenze. Il nostro è un pianeta blu.
L’oceano ricopre il 71% della superficie terrestre e racchiude il 97% di tutta l’acqua presente sul pianeta. È un unico grande ecosistema e come tale si comporta, anche se noi lo conosciamo suddiviso in mari e oceani. È l’habitat più esteso, la casa di gran parte delle specie viventi. Ed è vitale anche per noi.
Dalle primissime lezioni di scienze possiamo ricordare che la vita sul pianeta si forma in mare con i primi batteri, poi seguiti dagli organismi unicellulari. E nell’arco di milioni di anni quella vita esce dall’acqua e inizia a svilupparsi sulla terraferma. Quello a cui non pensiamo mai è che all’oceano dobbiamo anche una delle funzioni necessarie alla nostra stessa esistenza. L’ossigeno. Un respiro su due, lo dobbiamo a lui. L’oceano è il polmone blu del pianeta.
La sua salute è fondamentale pure per la nostra economia, risorse e attività collegate agli oceani generano infatti il 5% del PIL mondiale. A ridosso del mare vivono centinaia di milioni di persone. L’oceano garantisce cibo per tutti sul pianeta e per un miliardo di persone è la fonte di proteine primaria. Siamo troppo abituati a darlo per scontato.
L’oceano non lo conosciamo affatto. Sappiamo tutto delle terre emerse sulle quali abitiamo, ma i fondali marini sono ancora un mondo sconosciuto. Ne è stato esplorato e mappato solo il 5%, più o meno come la Luna. Lo stesso per quanto riguarda i nostri mari. Li chiamiamo “nostri” come se ne avessimo un qualche diritto di proprietà, in quanto il genere umano trae da lì il suo sostentamento alimentare ed economico.
Abbiamo sempre considerato il mare una delle risorse del pianeta apparentemente infinite di cui servirci a piacimento. Lo deprediamo con una pesca intensiva industriale che ha portato al minimo la produttività delle acque e al collasso intere popolazioni animali. E con l’inquinamento lo stiamo letteralmente soffocando. Quasi l’80% delle acque reflue viene scaricato in mare senza essere trattato. E in mare ogni anno finiscono 8 milioni di tonnellate di plastica, l’equivalente di un camion pieno di rifiuti riversato ogni minuto. Un’invasione che sta mettendo a rischio la sopravvivenza di centinaia di specie marine.
Una parte considerevole di quella che è stata chiamata dagli scienziati la sesta estinzione di massa sta avvenendo lontano dai nostri occhi, sotto il pelo dell’acqua. E se nel Pacifico la “zuppa di plastica” è già estesa come un’isola ed è più grande della Francia, si calcola che entro la metà del secolo nei mari troveremo più plastica che pesci. Non ci sarà uccello marino che non l’abbia ingerita. Nanoplastiche e microplastiche sono state rintracciate persino nel nostro sangue.
Un’immagine difficile da dimenticare mi è stata mostrata durante una visita all’Agenzia Spaziale Europea. L’inquinamento atmosferico generato dai traffici marittimi mondiali è una nube che avvolge tutto il pianeta. È così grande da essere visibile dallo spazio. Se un impianto produttivo avesse le stesse emissioni di una nave, oggi verrebbe immediatamente chiuso perché non sarebbe accettabile sulla terraferma avere quei livelli di azoto o particolato sottile. Ma in mare sì. Ogni singola nave – comprese quelle da crociera – inquina come migliaia di automobili. Eppure si calcola che il settore inquinerà il 130% in più nei prossimi dieci anni.
Ci arriva un barlume di consapevolezza di quello che viene estratto e trasportato ogni giorno per mare solo quando fa notizia un grave incidente come quello del 2021 alle isole Mauritius o un disastro ambientale delle proporzioni della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, nel golfo del Messico. Passata l’iniziale commozione, non pensiamo mai a quante navi trasportano combustibile e merci su e giù per il mondo. Ogni giorno.
Anche le attività estrattive in mare aperto alla ricerca di nuovi combustibili fossili non si arrestano. La scienza ci ha avvertito di aver quasi esaurito il carbon budget a nostra disposizione. Ma nuove esplorazioni e concessioni riguardano persino l’Artico, il “nuovo” Artico meno ghiacciato. In quella che è una delle aree più fragili del pianeta, si stima ci sia almeno un quarto delle riserve finora inesplorate di petrolio e gas.
«Vedere l’Artico come un’opportunità per nuove perforazioni, quando sono stati proprio i combustibili fossili la causa di questo disastro, non è accettabile. Abbiamo già estratto fin troppo. E il risultato è l’aumento delle emissioni. Non c’è bisogno di cercare più nulla. Tutto quello che non è stato ancora estratto deve rimanere nel sottosuolo, lì dov’è. Basta perforazioni in Artico, non ce ne possiamo permettere nemmeno una di più». Parole perentorie che mi regalò Christiana Figueres, una diplomatica originaria della Costa Rica, Segretario esecutivo della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici tra il 2010 e il 2016. Considerata l’architetto dell’Accordo di Parigi, è la persona che è riuscita a convincere 194 Paesi del mondo a impegnarsi ad abbassare le emissioni per contenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2 °C e il più possibile vicino a 1,5 °C. È quella la nostra soglia critica di aumento di temperatura media globale. Le sue parole dovrebbero essere la nostra stella polare.
E invece l’oceano è il più sottovalutato anche quando si parla di cambiamenti climatici. Troppo vasto, pensiamo, per poter essere modificato da noi. Quando al contrario meriterebbe il massimo della nostra attenzione, perché è l’oceano che alimenta il nostro clima e ne determina il ritmo del cambiamento. Non solo abbiamo depredato e inquinato i nostri mari, con i cambiamenti climatici li stiamo modificando per sempre. E, di conseguenza, stiamo cambiando il volto del pianeta sul quale abitiamo.
Il riscaldamento globale ha alterato e accelerato il ciclo dell’acqua. Lo vediamo nelle tempeste più violente, nel rapido scioglimento dei ghiacci, ma anche nelle lunghe siccità e le persistenti ondate di calore. Questo rischia di essere solo un acconto di quello che ci aspetterà nei prossimi decenni, senza un drastico cambio di rotta.
L’oceano è stato il nostro miglior alleato contro il riscaldamento globale. Come una spugna ha assorbito il 30% dei gas serra e più del 90% del calore extra prodotto dalle attività umane e ci ha restituito indietro molto poco, con un’inerzia molto bassa. Possiamo pensare a un termosifone che riscalda a poco a poco la nostra stanza, rilasciando calore un po’ alla volta.
Senza il lavoro degli oceani, il riscaldamento globale sarebbe già probabilmente fuori controllo. Questa non è che la dimostrazione di quanto siano fondamentali. Ma la domanda è: quegli oceani che ci stanno salvando da condizioni di vita insostenibili, per quanto tempo ancora riusciranno a farlo?
Per rispondere a questa domanda e misurare gli effetti dei cambiamenti climatici ho viaggiato in tutto il mondo. Riscaldamento superficiale e ondate di calore marine, innalzamento del livello dei mari, acidificazione delle acque, deossigenazione non sono solo concetti scientifici. Sono reali. Sono sirene di allarme che ci dicono che l’ecosistema marino è stressato al punto da iniziare a pagare un prezzo altissimo. Di questo passo, irreversibile.
La soluzione è conoscere l’oceano e proteggerlo sempre di più. Le buone pratiche dimostrano che si può ancora fare tanto. Si è visto che i mari sono gli ecosistemi che rispondono meglio e più velocemente alle buone pratiche di gestione.
Nel mondo migliaia di scienziati sono al lavoro per questa missione impossibile, salvare gli oceani per salvare noi stessi. Una corsa contro il tempo per rendere i nostri oceani più sani e più vitali. Ne ho incontrati diversi in questo viaggio nei cinque continenti e voglio condividere in queste pagine ciò che mi hanno detto. Ho scoperto che siamo negli anni decisivi di questa sfida. Lo dimostra il fatto che le Nazioni Unite hanno denominato gli anni 2021-2030 il Decennio degli Oceani. Non è una coincidenza che questi siano anche gli anni decisivi dell’azione climatica, gli anni per contenere il riscaldamento globale entro livelli compatibili con il benessere, la salute umana e il nostro assetto economico e sociale. Dieci anni per curare il malato grave, direbbe il noto climatologo Luca Mercalli.
Vorrei ringraziare uno a uno gli scienziati che ho incontrato in questi anni. Diversi li troverete citati in questi capitoli, con molti rimango in contatto per confronti sempre interessanti. Sono persone appassionate, oltre che competenti e rigorose. Sono consapevoli della difficoltà della sfida, ma anche dell’urgenza di far comprendere il loro lavoro. Stanno facendo uno sforzo di divulgazione e di informazione incredibile. Li dovremmo tutti ringraziare per come stanno rendendo accessibili concetti e sistemi complessi come quello climatico. Giornalisticamente, sono fonte di ispirazione per me. Mi hanno spinto ad andare a verificare come quei numeri, quei modelli, quei risultati siano già nelle nostre vite: sono storie di persone e luoghi. Il cambiamento climatico è qui e ora. Il pianeta è cambiato e l’uomo deve faticosamente adattarsi alle nuove condizioni.
40,5 miliardi di tonnellate di emissioni globali di CO2 solo nell’ultimo anno, con un ulteriore aumento dell’1%, dimostrano invece che la strada della mitigazione è ancora lunga. Insufficientemente praticata. Così lenta da risultare incompatibile con la velocità dei cambiamenti climatici in corso.
Abbiamo costruito un mondo basato sui combustibili fossili. Un modello di sviluppo e di consumo che ha già ampiamente superato i limiti ambientali. L’idea stessa della crescita infinita ha le fondamenta nel carbone, nel petrolio, nel gas. È l’idea del consumare le risorse fin quando ce ne sono. Ma le emissioni climalteranti stanno riscaldando atmosfera e oceani a una velocità mai vista. Dare fondo alle risorse fossili accumulate nella Terra in milioni di anni, per bruciarle in un secolo e mezzo, significa spezzare un equilibrio, rompere il patto di convivenza con la natura.
Trasformare l’atmosfera e gli oceani nella discarica delle nostre attività non sarebbe stato un nostro problema, ma di qualche lontana futura generazione, si diceva. Salvo poi essere riportati sui binari della realtà dalla scienza, che da almeno 30 anni ci dice che invece no, i cambiamenti causati dall’uomo hanno una forza tale da avere un impatto geologico oggi e nei prossimi decenni.
Miope è anche considerare i modelli climatici come qualcosa di cui non occuparsi fino alla scadenza. Se il modello mi dice 2050, vuol dire che fino al 2049 non succederà niente? Mi potrò comportare come ho sempre fatto, il cosiddetto business as usual? È la metafora magistralmente rappresentata nel film Don’t Look Up. Non solo non si presta attenzione all’allarme della scienza, ma si va avanti come nulla fosse o persino negando l’evidenza scientifica. Fin quando non ci si ritrova l’asteroide davanti agli occhi. Con la stessa miopia abbiamo considerato l’oceano come qualcosa di distante o separato da noi. Indipendente da quello che succede sulla terraferma solo perché fisicamente separato da una striscia di sabbia. Questo libro mira anche a rimettere l’oceano al centro del racconto del mondo. Delle nostre vite.
Un oceano sano sarebbe garanzia di un futuro sicuro per noi e i nostri figli. In fondo, l’azione climatica non è che una battaglia per un mondo migliore. Più bello. Meno inquinato. Più giusto. Ci piace davvero quello che vediamo intorno a noi? Potremmo avere aria più respirabile, camminare in città più vivibili, pagare meno l’energia, mangiare meglio. Lo so, non esistono soluzioni semplici a problemi complessi. E se esistono, non si realizzano rapidamente. In gioco, non ci sono solo extraprofitti di aziende private ma interessi nazionali, equilibri geopolitici e geostrategici. La chiusura di un rubinetto può far saltare tutto il fragilissimo equilibrio, nonostante la strada alternativa sia più che tracciata e praticabile. Ma questo è un altro discorso.
Ora seguitemi, si va per mare.
27 Gennaio 2023 | www.pde.it |
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