Come nascono gli oceani
La vita del pianeta dipende dall'acqua
Come si sono formati gli oceani? E perché l'acqua è alla base della vita? Bonatti ci racconta come mai il nostro è il "pianeta blu".
- Collana: Le grandi voci
- ISBN: 9788822016188
- Anno: 2022
- Mese: luglio
- Formato: 13 x 18 cm
- Pagine: 96
- Tag: Ambiente Clima Oceani
Disponibile
Perché la Terra è l’unico pianeta nel Sistema Solare con acqua allo stato liquido? E come si sono formati gli oceani e i continenti? Bonatti ci racconta il passato, il presente e il futuro geologico dei nostri mari; ripercorre così il legame tra acqua e vita che ha plasmato la storia dell’umanità attraverso la sua esperienza personale, tra navi oceanografiche e immersioni sul fondo marino sino a quasi 6000 metri.
L’acqua e la vita - L’acqua nel Sistema Solare - La nascita di oceani e continenti - Una rivoluzione scientifica: la deriva dei continenti- Noi e gli oceani - Su una nave oceanografica - Discesa sul fondo - Il futuro degli oceani
L'acqua e la vita
Questo nostro pianeta è l’unico tra quelli del Sistema Solare coperto per due terzi dalla distesa di acqua liquida che noi chiamiamo mare o oceano. È anche l’unico che ospiti una vita rigogliosa e varia, dai microrganismi al mondo vegetale e animale, inclusi noi umani. Questa vita non sarebbe possibile senz’acqua: acqua la cui presenza si svela soprattutto nel mare.
Noi e il mare siamo profondamente legati. Conosco bene questo legame. Il mio campo di studi, la geologia dei bacini oceanici, mi ha portato a girare in lungo e in largo sugli oceani del mondo, e persino a penetrarne le oscure profondità.
Il rapporto acqua-vita ha da sempre indotto nella mente umana anche una sorta di “passione” pro o contro il mare. Il mare non ci è mai indifferente… può anzi ispirarci una gamma di sentimenti che va dall’estasi al terrore. Il terrore può colpirci talvolta senza preavviso persino nel mezzo dell’estasi. L’ho provato una volta non quando l’oceano ci aggrediva, squassandoci per giorni e notti con una delle sue tempeste, ma all’opposto in uno di quei giorni gloriosi quando ci sorrideva calmo e accogliente.
Navigavamo nel Sud Pacifico con la nave Pillsbury dell’Università di Miami. Eravamo partiti tre settimane prima dal porto di Callao, in Perù. Obiettivo: l’esplorazione geofisica e il campionamento di un tratto della dorsale pacifica. Eravamo lontani da ogni terra... la più vicina era l’isola di Pasqua, distante più di 500 km. La nave si doveva fermare per un paio d’ore per una verifica alle macchine, e il comandante ci concesse di tuffarci in acqua in quella splendida giornata, dopo aver incaricato un paio di uomini di controllare dall’alto la presenza di squali.
Mi buttai giù dal ponte come molti altri, saltai dentro quel magnifico oceano Pacifico e l’improvviso contatto avviluppante con il fluido blu mi dette un lungo brivido di piacere, quasi di estasi. Tornai a galla, mi allontanai con poche bracciate, il viso semisommerso, gli occhi chiusi. Mi fermai, alzai la testa. Gli occhi a fior d’acqua appena al di sopra di questa superficie che si estende all’infinito senza un appiglio; sotto di me un abisso incommensurabile, sopra un immenso emisfero vuoto.
Senza che mi muovessi, l’onda lunga del Pacifico mi spingeva passivamente in alto, poi di nuovo in basso. Sapevo che la nave era vicina, a non più di un centinaio di metri; ma la sua sagoma mi sembrava inconsistente, sfocata, irraggiungibile: la nave era inesistente. Poi mi trovai nella valle tra due onde. Ero in preda a vertigini, non sapevo più dove fosse l’alto e dove il basso, il peso di tutto quello spazio fluido mi bloccava il respiro, il panico mi invase, con il terrore di affogare in quell’immensità.
Chiusi gli occhi e nuotai disperatamente in direzione della nave senza alzare la testa. Sbattei finalmente contro la fiancata, mi aggrappai alla scaletta ansimando, mi arrampicai, mi lasciai cadere sul ponte, steso sul tavolato di legno levigato, caldo e seccato dal sole: superficie di materia solida, asciutta, resistente, di cui l’anima aveva bisogno più dell’infinito. Così è il nostro rapporto con il mare, ambivalente e vertiginoso.
Questo nostro pianeta è l’unico tra quelli del Sistema Solare coperto per due terzi dalla distesa di acqua liquida che noi chiamiamo mare o oceano. È anche l’unico che ospiti una vita rigogliosa e varia, dai microrganismi al mondo vegetale e animale, inclusi noi umani. Questa vita non sarebbe possibile senz’acqua: acqua la cui presenza si svela soprattutto nel mare.
Noi e il mare siamo profondamente legati. Conosco bene questo legame. Il mio campo di studi, la geologia dei bacini oceanici, mi ha portato a girare in lungo e in largo sugli oceani del mondo, e persino a penetrarne le oscure profondità.
Il rapporto acqua-vita ha da sempre indotto nella mente umana anche una sorta di “passione” pro o contro il mare. Il mare non ci è mai indifferente… può anzi ispirarci una gamma di sentimenti che va dall’estasi al terrore. Il terrore può colpirci talvolta senza preavviso persino nel mezzo dell’estasi. L’ho provato una volta non quando l’oceano ci aggrediva, squassandoci per giorni e notti con una delle sue tempeste, ma all’opposto in uno di quei giorni gloriosi quando ci sorrideva calmo e accogliente.
Navigavamo nel Sud Pacifico con la nave Pillsbury dell’Università di Miami. Eravamo partiti tre settimane prima dal porto di Callao, in Perù. Obiettivo: l’esplorazione geofisica e il campionamento di un tratto della dorsale pacifica. Eravamo lontani da ogni terra... la più vicina era l’isola di Pasqua, distante più di 500 km. La nave si doveva fermare per un paio d’ore per una verifica alle macchine, e il comandante ci concesse di tuffarci in acqua in quella splendida giornata, dopo aver incaricato un paio di uomini di controllare dall’alto la presenza di squali.
Mi buttai giù dal ponte come molti altri, saltai dentro quel magnifico oceano Pacifico e l’improvviso contatto avviluppante con il fluido blu mi dette un lungo brivido di piacere, quasi di estasi. Tornai a galla, mi allontanai con poche bracciate, il viso semisommerso, gli occhi chiusi. Mi fermai, alzai la testa. Gli occhi a fior d’acqua appena al di sopra di questa superficie che si estende all’infinito senza un appiglio; sotto di me un abisso incommensurabile, sopra un immenso emisfero vuoto.
Senza che mi muovessi, l’onda lunga del Pacifico mi spingeva passivamente in alto, poi di nuovo in basso. Sapevo che la nave era vicina, a non più di un centinaio di metri; ma la sua sagoma mi sembrava inconsistente, sfocata, irraggiungibile: la nave era inesistente. Poi mi trovai nella valle tra due onde. Ero in preda a vertigini, non sapevo più dove fosse l’alto e dove il basso, il peso di tutto quello spazio fluido mi bloccava il respiro, il panico mi invase, con il terrore di affogare in quell’immensità.
Chiusi gli occhi e nuotai disperatamente in direzione della nave senza alzare la testa. Sbattei finalmente contro la fiancata, mi aggrappai alla scaletta ansimando, mi arrampicai, mi lasciai cadere sul ponte, steso sul tavolato di legno levigato, caldo e seccato dal sole: superficie di materia solida, asciutta, resistente, di cui l’anima aveva bisogno più dell’infinito. Così è il nostro rapporto con il mare, ambivalente e vertiginoso.
05 Ottobre 2022 | almanacco.cnr.it |
27 Ottobre 2022 | Almanacco della Scienza |
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