Turchia ieri, oggi, domani
La Turchia è una potenza da temere o una preziosa alleata? Franco Cardini, tra i più noti storici a livello internazionale, affronta le origini storiche di uno dei problemi più spinosi del nostro tempo.
- Collana: Le grandi voci
- ISBN: 9788822016096
- Anno: 2021
- Mese: maggio
- Formato: 13 x 18 cm
- Pagine: 96
- Tag: Storia Politica Attualità
Disponibile
La Turchia guidata da Erdoğan si propone sempre più come nuova potenza mondiale indipendente. Come è avvenuto questo cambiamento? Cardini illustra sapientemente la storia
di questo Paese, dall’Impero ottomano a oggi, perché solo conoscendo il passato si può capire meglio il presente e soprattutto il futuro.
Introduzione - Da Costantinopoli a Istanbul - L’Europa e il Mediterraneo - La guerra per Cipro - L’inizio della decadenza - Lo smembramento e la fine dell’Impero - La nascita della Turchia - La Turchia contemporanea - Letture consigliate
Introduzione
Fra gli anni ’20 e ’30 del XX secolo, la rivoluzione kemalista (dal nome del suo leader, Mustafa Kemal, primo presidente della Repubblica turca) s’impegnò a tracciare i contorni storici della nazione turca cercando di adattarli alle logiche dei nazionalismi europei allora in ascesa, che individuavano le proprie radici nelle antiche popolazioni insediatesi nel loro territorio. Era pertanto facile, anche se storicamente poco corretto, che per esempio l’Italia di quegli anni individuasse come sua antenata l’antica Roma, che il mondo tedesco si riconoscesse in un germanismo dalle tinte “nibelungiche”, che la Francia si rifacesse all’antica eredità dei Galli e che i Paesi slavi ricorressero agli eroi della loro antica poesia epica. Tutte queste operazioni culturali comportavano evidentemente semplificazioni, contraddizioni, approssimazioni e censure, ma erano il prezzo da pagare per l’elaborazione di una coscienza identitaria forte.
Dal canto suo, nel secondo quarto del XX secolo, la Turchia laica e nazionalista di Mustafa Kemal, per la quale europeizzazione e modernizzazione coincidevano, resisteva all’idea di rintracciare le sue radici nelle antiche genti turco-mongole nomadi che nel corso di circa un millennio, mischiate con altre etnie, si erano insediate in Anatolia per trovare poi dignità e coesione di popolo con la conversione all’Islam. Ben attento a tener lontani da sé gli equivoci del panturchismo o del panturanismo, senza poter d’altronde attingere all’eredità ottomana che l’avrebbe ricondotto al sultanato, il kemalismo ripiegò sul principio della continuità insediativa geoculturale giungendo pertanto a celebrare come fondatrice, almeno dei presupposti della “nazione turca”, l’antica civiltà ittita, stanziatasi in Anatolia nella prima metà del II millennio a.C.
Si trattava però di un esperimento debole sotto il profilo archeologico-culturale. Il kemalismo, che nei primi anni ’30 si considerava, con il fascismo italiano e il bolscevismo sovietico, l’araldo di una nuova realtà sociale e civile fondata sul comunitarismo, su un sentire “laico” liberato dal pietismo e dal misticismo e sul culto del capo – il Ghazi (“comandante vittorioso”) o Atatürk (“padre dei Turchi”), come fu soprannominato Kemal – si sviluppò nel mezzo secolo successivo soprattutto come forma di acceso nazionalismo orientato verso l’Europa e l’Occidente e caratterizzato da uno spirito antirusso che aveva già contraddistinto il mondo ottomano.
Il culto della memoria di Mustafa Kemal, assunto a “religione civica” di Stato, completava il quadro. In tale generale contesto convivevano in modo problematico tesi storico-linguistiche che giungevano ad affermare la cosiddetta “teoria della lingua-sole” (ovvero che tutte le lingue discendessero da un primordiale – “solare” – idioma prototurco) e l’origine “turca” del genere umano. Vietato era invece rievocare il tempo glorioso dell’Impero ottomano, la cui eredità era considerata l’opposto antagonistico del kemalismo. La civiltà ottomana veniva vista come un lungo periodo durante il quale i non-turchi (principalmente arabi), o addirittura i non-musulmani (greci, slavi, armeni, latini, ebrei), avevano umiliato e soggiogato gli autentici turchi.
La crisi cipriota, il perdurante problema curdo, i ricorrenti colpi di Stato militari, il sorgere dei primi gruppi fondamentalisti musulmani e la mancata adesione all’Unione Europea hanno cambiato le carte in tavola. La nascita e l’affermazione della cosiddetta “democratura” (democrazia-dittatura) di Recep Tayyip Erdog˘an si è accompagnata non solo alla ripresa dell’Islam conservatore – in realtà mai scomparso nelle aree più arretrate dell’Anatolia – ma anche a un complesso e contraddittorio processo di recupero di elementi che il kemalismo sembrava aver definitivamente cancellato. Da una parte si è assistito al ritorno al senso di orgoglio e di continuità rispetto all’“età d’oro” del sultanato ottomano, fra XV e XVII secolo, e ai progressi dell’europeizzazione-modernizzazione dell’Ottocento ancora sotto il segno del regime sultaniale; dall’altra alla rivalutazione di movimenti come il panturchismo e tendenze per certi versi “irredentistiche”, miranti a rivalutare il ruolo e l’identità dei Paesi “turchi fuori della Turchia”, dall’area caucasica (Azerbaijan) a quella centroasiatica abitata da turkmeni, kirghizi, kazaki, uzbeki e minoranze tatare loro affini.
E affiora, qua e là, il miraggio magari utopistico di una “Grande Turchia”, che orienta la politica erdog˘aniana, almeno in teoria, ancora più in rotta di collisione con la nuova “Grande Russia”, la cui egemonia si riflette sulle stesse repubbliche turco-tatare centroasiatiche.
“Neo-ottomanismo” e “neopanturchismo” sembrano agitarsi nell’odierno contesto di un perdurante nazionalismo turco, che il presidente Erdog˘an sta cercando di tradurre in un rinnovato ruolo di grande potenza, almeno nell’area mediterranea e vicino-orientale. Il patriottismo turco sta quindi mutando rispetto a quello che era un secolo fa: è meno filoeuropeo, anche se non meno filoccidentale, e ostenta una religiosità moderata ma decisa e non più laica.
Alla luce di ciò si capisce perché sia stato così popolare fra i turchi il ritorno, sia pure parziale e formale, di Santa Sofia (Ayasofya in turco) alla sua funzione di moschea – strappata così alla sua funzione “internazionale” di museo – e come, nonostante il presidente Erdog˘an si sia fatto costruire una colossale residenza ad Ankara, sempre più frequenti si facciano le voci di un possibile ritorno di Istanbul alla sua antica veste di capitale.
D’altronde, Istanbul non è ormai più sinonimo di megalopoli cosmopolita e multiculturale, ma sta divenendo simbolo di una rinnovata e rifondata turcitas ben radicata nella fiera consapevolezza del passato imperiale ottomano e nell’identità religiosa musulmana: due tratti che, pur senza rinunciare in nulla alla modernizzazione, si discostano decisamente dal nazionalismo laico, europeizzante e occidentalizzante ereditato dal padre della Turchia moderna, Mustafa Kemal.
Fra gli anni ’20 e ’30 del XX secolo, la rivoluzione kemalista (dal nome del suo leader, Mustafa Kemal, primo presidente della Repubblica turca) s’impegnò a tracciare i contorni storici della nazione turca cercando di adattarli alle logiche dei nazionalismi europei allora in ascesa, che individuavano le proprie radici nelle antiche popolazioni insediatesi nel loro territorio. Era pertanto facile, anche se storicamente poco corretto, che per esempio l’Italia di quegli anni individuasse come sua antenata l’antica Roma, che il mondo tedesco si riconoscesse in un germanismo dalle tinte “nibelungiche”, che la Francia si rifacesse all’antica eredità dei Galli e che i Paesi slavi ricorressero agli eroi della loro antica poesia epica. Tutte queste operazioni culturali comportavano evidentemente semplificazioni, contraddizioni, approssimazioni e censure, ma erano il prezzo da pagare per l’elaborazione di una coscienza identitaria forte.
Dal canto suo, nel secondo quarto del XX secolo, la Turchia laica e nazionalista di Mustafa Kemal, per la quale europeizzazione e modernizzazione coincidevano, resisteva all’idea di rintracciare le sue radici nelle antiche genti turco-mongole nomadi che nel corso di circa un millennio, mischiate con altre etnie, si erano insediate in Anatolia per trovare poi dignità e coesione di popolo con la conversione all’Islam. Ben attento a tener lontani da sé gli equivoci del panturchismo o del panturanismo, senza poter d’altronde attingere all’eredità ottomana che l’avrebbe ricondotto al sultanato, il kemalismo ripiegò sul principio della continuità insediativa geoculturale giungendo pertanto a celebrare come fondatrice, almeno dei presupposti della “nazione turca”, l’antica civiltà ittita, stanziatasi in Anatolia nella prima metà del II millennio a.C.
Si trattava però di un esperimento debole sotto il profilo archeologico-culturale. Il kemalismo, che nei primi anni ’30 si considerava, con il fascismo italiano e il bolscevismo sovietico, l’araldo di una nuova realtà sociale e civile fondata sul comunitarismo, su un sentire “laico” liberato dal pietismo e dal misticismo e sul culto del capo – il Ghazi (“comandante vittorioso”) o Atatürk (“padre dei Turchi”), come fu soprannominato Kemal – si sviluppò nel mezzo secolo successivo soprattutto come forma di acceso nazionalismo orientato verso l’Europa e l’Occidente e caratterizzato da uno spirito antirusso che aveva già contraddistinto il mondo ottomano.
Il culto della memoria di Mustafa Kemal, assunto a “religione civica” di Stato, completava il quadro. In tale generale contesto convivevano in modo problematico tesi storico-linguistiche che giungevano ad affermare la cosiddetta “teoria della lingua-sole” (ovvero che tutte le lingue discendessero da un primordiale – “solare” – idioma prototurco) e l’origine “turca” del genere umano. Vietato era invece rievocare il tempo glorioso dell’Impero ottomano, la cui eredità era considerata l’opposto antagonistico del kemalismo. La civiltà ottomana veniva vista come un lungo periodo durante il quale i non-turchi (principalmente arabi), o addirittura i non-musulmani (greci, slavi, armeni, latini, ebrei), avevano umiliato e soggiogato gli autentici turchi.
La crisi cipriota, il perdurante problema curdo, i ricorrenti colpi di Stato militari, il sorgere dei primi gruppi fondamentalisti musulmani e la mancata adesione all’Unione Europea hanno cambiato le carte in tavola. La nascita e l’affermazione della cosiddetta “democratura” (democrazia-dittatura) di Recep Tayyip Erdog˘an si è accompagnata non solo alla ripresa dell’Islam conservatore – in realtà mai scomparso nelle aree più arretrate dell’Anatolia – ma anche a un complesso e contraddittorio processo di recupero di elementi che il kemalismo sembrava aver definitivamente cancellato. Da una parte si è assistito al ritorno al senso di orgoglio e di continuità rispetto all’“età d’oro” del sultanato ottomano, fra XV e XVII secolo, e ai progressi dell’europeizzazione-modernizzazione dell’Ottocento ancora sotto il segno del regime sultaniale; dall’altra alla rivalutazione di movimenti come il panturchismo e tendenze per certi versi “irredentistiche”, miranti a rivalutare il ruolo e l’identità dei Paesi “turchi fuori della Turchia”, dall’area caucasica (Azerbaijan) a quella centroasiatica abitata da turkmeni, kirghizi, kazaki, uzbeki e minoranze tatare loro affini.
E affiora, qua e là, il miraggio magari utopistico di una “Grande Turchia”, che orienta la politica erdog˘aniana, almeno in teoria, ancora più in rotta di collisione con la nuova “Grande Russia”, la cui egemonia si riflette sulle stesse repubbliche turco-tatare centroasiatiche.
“Neo-ottomanismo” e “neopanturchismo” sembrano agitarsi nell’odierno contesto di un perdurante nazionalismo turco, che il presidente Erdog˘an sta cercando di tradurre in un rinnovato ruolo di grande potenza, almeno nell’area mediterranea e vicino-orientale. Il patriottismo turco sta quindi mutando rispetto a quello che era un secolo fa: è meno filoeuropeo, anche se non meno filoccidentale, e ostenta una religiosità moderata ma decisa e non più laica.
Alla luce di ciò si capisce perché sia stato così popolare fra i turchi il ritorno, sia pure parziale e formale, di Santa Sofia (Ayasofya in turco) alla sua funzione di moschea – strappata così alla sua funzione “internazionale” di museo – e come, nonostante il presidente Erdog˘an si sia fatto costruire una colossale residenza ad Ankara, sempre più frequenti si facciano le voci di un possibile ritorno di Istanbul alla sua antica veste di capitale.
D’altronde, Istanbul non è ormai più sinonimo di megalopoli cosmopolita e multiculturale, ma sta divenendo simbolo di una rinnovata e rifondata turcitas ben radicata nella fiera consapevolezza del passato imperiale ottomano e nell’identità religiosa musulmana: due tratti che, pur senza rinunciare in nulla alla modernizzazione, si discostano decisamente dal nazionalismo laico, europeizzante e occidentalizzante ereditato dal padre della Turchia moderna, Mustafa Kemal.
27 Maggio 2021 | Avvenire |
29 Maggio 2021 | La Sicilia |
21 Giugno 2021 | La Gazzetta del Mezzogiorno |
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