La grande festa
Vita rituale e sistemi di produzione nelle società tradizionali
prima edizione 1977
nuova edizione con prefazione di Edoardo Sanguineti
Una nuova edizione di un «classico» degli studi di etnologia e antropologia: un esame, rigoroso e fecondo di suggestioni, di civiltà antiche e diverse, unificate dalla dialettica di sacro e profano.
- Collana: Storia e civiltà
- ISBN: 9788822005564
- Anno: 2004
- Mese: novembre
- Formato: 14,5 x 21,5 cm
- Pagine: 648
- Note: rilegato con sovraccoperta, illustrato
- Tag: Antropologia Folclore Etnologia
L'autore, partendo dal confronto tra le più varie società tradizionali di cacciatori, pescatori, allevatori, coltivatori e pastori nomadi in diversi continenti, rappresenta il senso del Capodanno, inteso come festa del principio, momento di massimo impegno per la vita individuale e collettiva, nel quale l'uomo deve propiziarsi con preghiere, riti e doni la successiva tappa della sua esistenza. In realtà, questo excursus tra le suggestive forme mitico-rituali della vita religiosa nelle civiltà di livello etnologico è il punto di partenza per uno studio storico-comparativo che si propone d'interpretare l'orizzonte problematico e cruciale delle relazioni tra i fatti religiosi e le componenti ambientali e socio-economiche che determinano, in definitiva, il sistema di produzione nelle realtà via via esaminate. L'indagine tocca infine il problema della genesi di alcuni importanti temi culturali e religiosi propri delle grandi civiltà antiche del Mediterraneo e del vicino Oriente, da cui è nata la civiltà occidentale. La grande festa costituisce così una mirabile sintesi tra etnologia e storiografia, feconda di richiami all'antropologia economica e all'ecologia culturale, che ne fanno uno dei «libri più importanti della cultura del Novecento, uno dei dieci libri da salvare del secolo XX», come sostiene lo stesso Sanguineti nella sua prefazione.
In margine a un capolavoro di Edoardo Sanguineti - Introduzione alla nuova edizione di Vittorio Lanternari - Nota introduttiva di Ernesto De Martino - Premessa - I. L'IRRAZIONALISMO NELL'ETNOLOGIA - L'irrazionalismo nell'etnologia - II. LA FESTA DI CAPODANNO NELLE CIVILTÀ DI COLTIVATORI E DELLA CACCIA-RACCOLTA - 1. La festa di Capodanno dei Trobriandesi - 2. I lavori di coltivazione fra i Melanesiani - I lavori - Irrazionalità e Logos - 3. La festa di Capodanno in Melanesia - Isole Salomone - Nuove Ebridi - Figi - Nuova Britannia - Nuova Irlanda (già Nuovo Meclemburgo) - Nuova Guinea - Nuova Caledonia - Conclusione - 4. La festa di Capodanno tra le civiltà della caccia-raccolta - Il Capodanno dei cacciatori-raccoglitori - Analisi storico-comparativa - 5. Coltivatori e aristocrazia in Polinesia - Arioi e Ariki - Agricoltura polinesiana - Genesi dell'aristocrazia - 6. Capodanno e associazioni cultuali in Oceania - 7. Feste di Capodanno in Polinesia - Ciclo agricolo e morti che tornano - Morfologia delle feste e mitologia - Sintesi: tema del tabu e dei morti revenants; tema del rinnovamento e dell'unificazione sociale - Il complesso solare-agrario e il problema delle componenti culturali polinesiane - 8. La festa dei maiali - 9. La religione di Capodanno a livello della cerealicoltura nell'antico Giappone e presso civiltà primitive - III. L'OFFERTA PRIMIZIALE IN ETNOLOGIA: IL CAPODANNO NELLE CIVILTÀ DI PASTORI NOMADI - 1. L'offerta primiziale: generalità - 2. Le civiltà della caccia-raccolta e pesca: l'offerta primiziale al «Signore degli animali» - 3. Le civiltà coltivatrici: l'offerta agli spiriti dei morti - 4. Le società agricole gerarchizzate: l'offerta al re, agli antenati regali, agli dèi - 5. Il «Signore della pioggia» nella religione degli aborigeni australiani: l'assenza di offerta primiziale - 6. Le civiltà dell'allevamento - Ritualizzazione dell'uccisione (Eurasia, Oceania, America, Africa) - Festa di Capodanno e offerta primiziale degli allevatori eurasiatici e nord-africani - Sacrificio animale e ideologia dell'allevamento - 7. Ideologia dell'offerta primiziale nelle sue forme storiche - La «crisi di fallimento» nelle civiltà della caccia e dei coltivatori melanesiani; l'esperienza di «sacrilegio» - «Socializzazione» dell'offerta primiziale nelle società gerarchizzate - Ideologia del sacrificio nelle civiltà pastorali: il suo rapporto con il valore economico del bestiame e con la rischiosità professionale - Sacrificio animale e guerra di razzia come prodotti storico-culturali delle civiltà pastorali - Sintesi -IV. IL RITORNO DEI MORTI E L'ORGIA IN ETNOLOGIA - 1. Il ritorno collettivo dei morti nei suoi contesti etnologici - Civiltà coltivatrici - Civiltà della pastorizia nomade e della caccia-raccolta - Civiltà della pesca: il «battello dei morti» - 2. L'orgia nei suoi contesti etnologici - Orgia come danza - Orgia alimentare - Orgia sessuale - Conclusione - Elenco delle abbreviazioni e dei periodici - Bibliografia - Indice analitico
In margine a un capolavoro di Edoardo Sanguineti
Qualche mese fa, in una noterella recensiva al suo più recente volume, Ecoantropologia (2003), nella quale esprimevo anche qualche mia schietta riserva, scrivevo però che a Lanternari siamo debitori di uno dei libri più importanti della cultura del Novecento (e non dico del Novecento italiano, ma del Novecento tout court), La grande festa (1959, con nuova edizione 1976), che, per me, come si usa nelle parabole dell'isola deserta e degli oggetti con cui iperselettivamente convivere, è uno dei dieci libri da salvare, del secolo XX. Se qui riprendo queste mie parole, è per aggiungere che esse vogliono non soltanto esprimere un oggettivo giudizio, ma rispecchiare anche un vero sentimento di gratitudine intellettuale. Perché quell'opera (di un autore che, per avventura, ho incontrato personalmente soltanto lo scorso anno) è stata per me, più che un punto essenziale di riferimento per ogni questione di ordine etnologico e antropologico, e storico e metodologico, uno di quei testi che, bene o male, hanno deciso della mia interpretazione del mondo, e anzi, se così posso dire, del mio modo di stare al mondo. La grande festa ha segnato una svolta, per me come per molti altri suoi lettori, verosimilmente, in un orizzonte così problematico e cruciale qual è quello delle relazioni tra «vita rituale e sistemi di produzione nelle società tradizionali», collaborando a definire, a suo modo, la mia ideologia globale. Siamo tutti fatti, volendo e non volendo, avendone o no coscienza – anche chi abbia eventualmente accumulato molte esperienze culturali e divorato ricche biblioteche, fosse pure quella stessa di Babele – da un'esigua galleria di figure, che hanno formato, nella mente di ognuno, un suo proprio canone specifico. Potranno rientrarvi, tanto per dire – ma è chiaro che sto pensando, per forza, intanto a me stesso –, Marx e Benjamin, Darwin e Mauss, Freud e Gramsci, Lukács e Groddeck, Brecht e Goldmann, Spitzer e Debenedetti, Sartre e Weber, Lu Xun e Propp, Benveniste e Van Gennep: sono i primi nomi che mi vengono in testa, e non certo un inventario esaustivo. E poi dovrei menzionare tutti coloro che mi hanno aiutato con un libro, un capitolo di libro, un articolo, una frase, e che sovente, in modi quasi subliminali, sono stati determinanti, per la mia formazione e la mia esistenza; e non sto qui a parlare di poeti, di cineasti, di scienziati, di musicisti, di storici, di pittori, né di quegli innumerevoli personaggi incontrati per caso, di cui nemmeno si è mai conosciuto il nome, tante volte, ma che ci hanno fatti, tutti insieme, quelli che siamo stati, che oggi siamo diventati, alla fine). Ecco, voglio dire, in ogni caso, che Lanternari è stato uno dei miei classici, quando non ero ancora trentenne. È stato, ne son certo, un classico anche per molti che non hanno mai dichiarato il proprio debito. Come per molti che lo hanno proclamato quasi dolorosamente, come per un amore non ricambiato. Penso, dicendo questo, a una singolare recensione di Alfonso M. Di Nola, nel '77: Oscenità verbali e gestuali, danze mimetiche di accoppiamento, licenza orgiastica, diritto d'insulto impunemente esercitato contro i signori ed i potenti: questi i tratti di arcaici rituali contadini che l'osservatore attento può tuttora scoprire in alcune aree periferiche dell'Abruzzo, della Puglia, dell'Umbria. Emergono questi comportamenti in corrispondenza dei momenti in cui cade la tensione del ciclo produttivo, quando il contadino ha ormai nelle mani la mèsse o l'uva vendemmiata; ed esce dalla condizione di incertezza che domina il tempo produttivo. I tabù, che sono forme di controllo sociale e nascono da processi di autocolpevolizzazione, si infrangono; ed esplode la festa come riacquisto di una naturalità repressa. Questi usi, nei quali si cela anche un'abolizione cerimoniale della divisione classista, erano stati molte volte registrati. Brantôme, in Les dames galantes, nel XVI secolo, ricorda i “vendemmiatori della campagna napoletana, cui è consentito, in tempo di vendemmia, lanciare ingiurie a tutti i passanti”. E ciò che è più solleticante, aggiungeva, non risparmiavano le dame e le donne di rango, le quali, da parte loro, si precipitavano nei campi proprio per godersi sadicamente l'insulto [...] S. Alfonso dei Liguori, fondatore della morale cattolica moderna, dichiara che non sono da considerare peccati mortali le parole oscene, quando vengono pronunciate festivamente dai vendemmiatori, dai tosatori e dai mietitori. Questi e altri «fatti vivi» ancora «delle nostre culture subalterne» erano evocati da Di Nola in occasione della riedizione della Grande festa, precisamente. E aggiungeva, allora: A Lanternari le cose che scrivo non piacciono, perché la sua attenta coscienza filologica non ammette contaminazioni fra folklore, storia delle religioni ed etnologia. Invece io credo nell'unità fondamentale della condizione umana e sono insofferente delle divisioni disciplinari che la fratturano in diversi livelli storiografici (il «subalterno», il «primitivo», il «culto»). Lo stesso Lanternari, d'altra parte, aiuta a intendere l'importanza di questo suo libro fondamentale, in quella sua «Introduzione alla seconda edizione», datata ottobre 1976, quando, costretto dall'evidenza dei fatti a vincere tutti i suoi eccessi di autocritica modestia, che riempiono quella decina di paginette, deve pure rammentare come, all'altezza dei tardi anni Cinquanta, non esistesse, in buona sostanza, «né una etnologia né una scienza delle religioni marxiste che fossero criticamente consapevoli e scientificamente accettabili». Chiunque aveva cercato di elaborare, alla luce di alcune indicazioni capitali dei classici del materialismo storico, aiutandosi anche, per l'ambito italiano, con Pettazzoni e con De Martino, almeno un abbozzo mentale di «un'interpretazione generale dei fenomeni e degli atteggiamenti religiosi pertinenti nelle varie società tradizionali, nel loro nesso con le corrispondenti strutture socio-economiche viste come fattori condizionanti», trovava dispiegata, nelle sue linee determinanti, finalmente, «un'etnologia d'impianto materialistico», «un'etnologia come “storia” delle culture tradizionali», e non di quelle soltanto, e la rifondazione di quei «problemi di antropologia economica», dove si mostra «la funzione “produttiva” del rito nel suo nesso con il mito di fondazione, per cui l'atto di “fondazione rituale”, presso queste società tradizionali, rientra nel processo di produzione, come sua parte costitutiva». Attraverso Marx, puntualmente, si evidenziava come il «mito-rito» agisca quale «strumento di produzione», e sia, «in questo senso, produzione immaginativa destinata – quanto la produzione materiale – al consumo sociale». Si capisce bene che, per chi aveva letto, lacerato tra fascino e ribellione, incanto e disgusto, un po' tutto il leggibile, per quegli anni, da Lévy-Bruhl a Lévi-Strauss, da Eliade a Dumézil, da Kerényi a Volhard, da Frobenius a Malinowski, da Frazer a Benedict, era possibile appoggiarsi infine, prendendo equa distanza da ogni forma di «irrazionalismo nell'etnologia» (La grande festa è coeva, quasi un'allegoria, all'avvento in Italia della Distruzione della ragione), a una proposizione tanto memorabile quanto risolutiva, quale questa, che si leggeva nella «Conclusione» del '59: «Il momento profano in definitiva determina il momento religioso sia nella struttura sia nella forma. Il “sacro” a sua volta si spiega, entro ogni cultura, in funzione profana». Dimmi quale struttura socio-economica operi, e ti dirò come celebri il tuo Capodanno, come ti rappresenti e dove collochi i tuoi dèi o il tuo Essere supremo, che relazioni intrattieni con i morti e come sistemi i cadaveri dei tuoi defunti, e quale forma assegni alle tue nozze, ai tuoi tribunali, alle tue are. La sentenza terminale, in breve, argomentata per un mezzo migliaio di pagine, diceva dunque: Per entro la dialettica propria del sacro e del profano, la festa di Capodanno fenomenologicamente rappresenta una provvisoria, orgiastica evasione dalla storia e dal mondo, espressione culturalizzata di una condizione di crisi. Funzionalmente essa vale a salvare i valori immanenti, profani della vita. Infine storicamente essa si adegua del tutto alle rispettive civiltà portatrici, viste nella loro struttura economico-sociale. Da tale struttura la festa ripete la sua variabile fenomenologia: a tale struttura adegua la rispettiva funzione […]