La scienza elegante
Il fascino della semplicità
Dalle leggi di Keplero all’elica del DNA scoperta da Watson e Crick, «eleganza» nella scienza è da sempre sinonimo di immaginazione creativa e sorprendente semplicità.
- Collana: La Scienza Nuova
- ISBN: 9788822002556
- Anno: 2012
- Mese: ottobre
- Formato: 14 x 21 cm
- Pagine: 272
- Note: illustrato
- Tag: Scienza Storia della scienza Dna
Le teorie scientifiche più raffinate e le scoperte che suscitano maggior ammirazione da parte degli scienziati stessi hanno una caratteristica in comune, l’eleganza. Che significato possiamo attribuire alla parola «eleganza» in ambito scientifico? Qualcosa di efficace e creativo. Da un lato, capita infatti che una soluzione proposta sia così semplice e chiara da produrre nell’osservatore un’esclamazione di stupore. Dall’altro, la scienza più alta, teorica o sperimentale che sia, riflette sempre una notevole immaginazione creativa. In questo libro, Ian Glynn, illustre fisiologo e scrittore, esplora alcuni degli esempi migliori di eleganza nella scienza: l’incantevole semplicità delle leggi del moto dei pianeti scoperte da Keplero e da Newton; gli esperimenti di Galileo con il piano inclinato; i notevoli risultati di Thomas Young sulla luce; le folgoranti intuizioni sulla percezione umana di Richard Gregory e Vilayanur Ramachandran; gli incredibili progressi che portarono alla scoperta da parte di Crick e Watson della struttura del DNA e del suo funzionamento. Il risultato è un’affascinante traiettoria che si snoda attraverso alcuni degli episodi più importanti nella storia della scienza.
Prefazione - 1. Il significato della parola «eleganza» - 2. La meccanica celeste: la strada verso Newton - 3. Portare il cielo in terra - 4. Cos’è il calore? - 5. Eleganza ed elettricità - 6. Uno sguardo sulla luce: la storia di Thomas Young - 7. Come funzionano i nervi? - 8. La gestione delle informazioni nel cervello - 9. Il codice genetico - 10. Epilogo: una storia come monito - Appendice al capitolo quarto - La seconda legge della termodinamica - Indice analitico
I cinque problemi così elegantemente risolti da Archimede – come ricavare l’area di un cerchio? Come fa un corpo a galleggiare?
Come possiamo sapere se la corona del re è stata contraffatta con l’argento? Come possiamo costruire una leva se vogliamo alzare un carico molto pesante utilizzando poca forza?
Come possiamo pompare acqua verso l’alto? – erano tutti problemi noti. Tuttavia può capitare, raramente, che un argomento elegante riveli l’esistenza di un problema completamente inaspettato.
Uno splendido esempio è quello comunemente conosciuto come il paradosso di Olbers, sebbene fosse noto già ad altri prima di lui. Heinrich Olbers era un famoso medico della città di Brema tra la fine dell’XVIII e l’inizio del XIX secolo ed era un grande appassionato di matematica e astronomia. All’età di 16 anni, mentre frequentava ancora la scuola, impressionò tutti predicendo la data di un’eclissi di Sole; studiò matematica, fisica e medicina a Gottinga, e più avanti nella vita scoprì diversi asteroidi e comete calcolando il modo migliore per determinarne le traiettorie. A 64 anni, si ritirò dalla carriera di medico e nello stesso anno pubblicò il suo paradosso. Vediamo in cosa consiste.
Tutti noi abbiamo guardato il cielo notturno nel corso della nostra vita, abbiamo ammirato le stelle e anche dato per scontato che lo spazio di cielo tra le stelle fosse nero. Il merito di Olbers fu quello di capire che chiedersi perché il cielo di notte è nero è un’ottima domanda, che vale la pena porsi.
Egli ipotizzò che l’Universo fosse infinito e approssimativamente uniforme in ogni direzione. Consideriamo la luce proveniente dalle stelle. Immaginiamo delle sfere di cielo concentriche di un dato spessore arbitrario ma uguale per tutte – simili agli strati di una cipolla (si veda la figura 8) – e poniamoci al centro. Ora prendiamo in considerazione due strati, uno distante da noi il doppio dell’altro, e confrontiamo la quantità di luce che riceviamo da ciascuno dei due. Come già determinato da Keplero nel 1604, la quantità di luce proveniente da una sorgente puntiforme incidente su una superficie varia come l’inverso del quadrato della distanza della superficie dalla sorgente.
È facile capirlo considerando la luce di una candela al centro di una superficie cava e chiedendoci come varia la luce incidente sull’unità di superficie interna della sfera in funzione del raggio della sfera. Quale che sia il raggio, la quantità totale di luce incidente sulla superficie interna rimane la stessa (se raddoppiamo il raggio, l’area della superficie aumenterà di quattro volte cosicché la luce incidente sull’unità di superficie sarà un quarto di quella precedente). Torniamo ora alla quantità di luce proveniente dalle stelle poste nei due strati, la luce proveniente dalle singole stelle sullo strato più esterno dovrà percorrere in media un tragitto lungo il doppio quindi, per la legge dell’inverso del quadrato, avrà un’intensità pari a un quarto. Ma il volume occupato dallo strato più esterno sarà quattro volte maggiore di quello dello strato più interno (ciò accade perché gli strati sono entrambi dello stesso spessore e l’area aumenta con il quadrato del raggio). Se supponiamo che l’Universo sia approssimativamente uniforme, lo strato più esterno conterrà un numero di stelle quattro volte maggiore, cosicché l’effetto della legge dell’inverso del quadrato viene compensato dal numero maggiore di stelle. La luce totale proveniente dallo strato più esterno, laddove non è ostacolata nel suo cammino da altre stelle, avrà la stessa intensità media di quella proveniente dallo strato più interno. Ciò è valido per tutti gli altri strati. Secondo questo ragionamento, è chiaro che tutte le aree del cielo dovrebbero apparire estremamente brillanti poiché lo spazio tra le stelle più vicine dovrebbe permetterci di vedere la luce proveniente da quelle più lontane. In altre parole, in ogni direzione dovremmo vedere la luce proveniente dalle stelle e la percezione intuitiva secondo la quale le stelle molto distanti sono troppo deboli non è corretta perché in realtà il loro numero è maggiore.
L’oscurità del cielo notturno ci dice quindi che siamo in grado di vedere la luce solo di un numero finito di stelle, o perché ne esistono un numero finito o perché, per qualche motivo, la luce dalle stelle più lontane non può raggiungerci. Olbers credeva che la spiegazione risiedesse nel fatto che lo spazio tra noi e le stelle non fosse completamente trasparente a causa della presenza del mezzo interstellare. Noi ora sappiamo che l’oscurità del cielo si spiega, in parte, con il fatto che esiste un numero finito di galassie, e in parte, con il fatto che l’Universo è in espansione (poiché l’Universo si sta espandendo in modo uniforme, le altre galassie si allontanano da noi con velocità proporzionali alla loro distanza da noi. La luce proveniente dalle altre galassie ci apparirà quindi di lunghezza d’onda maggiore, il cosiddetto redshift o spostamento verso il rosso, e la loro energia ci raggiungerà a un tasso inferiore). Ma l’eleganza insita nel paradosso di Olbers è legata al fatto che a tali conclusioni di così vasta portata si è arrivati grazie a osservazioni disponibili sin dal primo istante in cui l’uomo ha rivolto il suo sguardo verso il cielo notturno e grazie a teorie – alcuni elementi di geometria elementare e la legge dell’inverso del quadrato della distanza – che ai tempi di Olbers erano già note da più di due secoli.
01 agosto 2014 | BBC Science |
13 novembre 2012 | La Stampa |
19 novembre 2012 | IL FOGLIO |