Il computer di Platone
Alle origini del pensiero logico e matematico
prima edizione 2005
ristampa
prefazione di Piergiorgio Odifreddi
Un tentativo di fare storia cognitiva sulla nascita del paradigma sintattico nell'antichità greca, tra matematica, logica e filosofia, per scoprirvi le radici della civiltà moderna, della sua scienza fatta di segni e della sua epifania tecnologica: il computer.
- Collana: La Scienza Nuova
- ISBN: 9788822002273
- Anno: 2008
- Mese: settembre
- Formato: 14 x 21 cm
- Pagine: 520
- Tag: Scienza Matematica Logica matematica Filosofia della scienza Linguaggio Storia della scienza Platone
Il pensiero formale si fonda sul «paradigma sintattico»: l'ipotesi di poter rappresentare la realtà tramite un linguaggio (l'italiano, l'algebra, la logica, il C++, ecc.) e di poter dedurre o calcolare o prevedere o scoprire qualcosa sulla realtà manipolando i segni del linguaggio. Rappresentare, interpretare, codificare, digitalizzare sono i termini base di questo paradigma e sono ormai parte del nostro quotidiano. I nostri elettrodomestici, le carte di credito e i codici a barre, le nostre città e le nostre industrie, il nostro stesso corpo codificato nel DNA, sono le tracce di un'espansione della manipolazione dei segni che è diventata ormai tanto comune da sembrare ovvia. E da farci sembrare ovvia anche la «macchina sintattica», il computer, che del trionfo del paradigma sintattico è la manifestazione tecnologica. Eppure non è così. La nostra scienza ha cominciato a basarsi su segni (formule e misure) solo pochi secoli fa, il pensiero formale non è qualcosa di ovvio per il bambino ed è stato assente o marginale in tutte le grandi civiltà che hanno preceduto o affiancato la nostra. Persino la grande civiltà cinese lo ha solo sfiorato. Da dove viene? Quando si è formato? Come si è imposto? Come ha trasformato la nostra cultura? A queste domande di storia cognitiva, tra matematica, logica e filosofia antiche, questo libro cerca di rispondere scoprendone l'attualità, poichè «ogni vera storia è sempre storia contemporanea».
L'impero dei segni, di Piergiorgio Odifreddi - 1. Il regno dei segni - L'opera matematica - La matematica e la civiltà europea - I segni - 2. Il paradigma sintattico - L'origine dei «segni» - Macchine e linguaggi - Le “difficoltà” del paradigma - Rappresentazione amalgamata e non amalgamata - La “penombra” del paradigma 3. La genesi del pensiero formale nella filosofia greca - Essere e divenire - La scrittura nella società greca - Verità e conoscenza - Parmenide ed Eraclito - Platone e i sofisti - 4. La genesi del pensiero formale nella matematica greca - La matematica dell'abaco. Le due tradizioni - matematiche dell'antichità - La matematica greca - Il pitagorismo - Zenone, l'infinito e il continuo - 5. L'evoluzione del paradigma sintattico - I paradossi dei sofisti - Il problema dell'errore - Il problema degli «elementi» - Verità e significato - Il paradigma sintattico in Aristotele - Logica antica e paradigma sintattico dopo Aristotele - 6. La nascita del metodo deduttivo - La dimostrazione - Il metodo assiomatico-deduttivo in Aristotele e la logica - Il metodo assiomatico-deduttivo e gli Elementi - 7. L'uguaglianza e la dimostrazione per assurdo - L'uguaglianza “sintattica” - L'uguaglianza nella matematica greca - La dimostrazione per assurdo - Diofanto - 8. Il numero - Il linguaggio e il paradosso del giudizio negativo - La monade e il nulla - L'uno e i molti - Il numero da Aristotele a Diofanto - 9. L'infinito - L'idea di infinito nella filosofia greca - Aristotele: l'infinito e lo spazio - L'infinito nella matematica antica - 10. Il continuo e il discreto - Numeri e grandezze - Sistema decimale e duodecimale - Il continuum - Il punto e l'unità - Eudosso, Archimede e il metodo di «esaustione» - 11. L'incommensurabilità - Musica e incommensurabilità - Incommensurabilità e continuità - 12. Il soggetto della conoscenza - L'anima nel pitagorismo - L'anima nel paradigma sintattico - 13. Il pensiero formale in Cina - Il verbo “essere” in cinese - Parole e cose - La matematica cinese - Scienza e linguaggio in Cina - I paradossi del pensiero formale - Il paradigma sintattico - 14. Riflessioni e conclusioni - Riferimenti bibliografici - Indice dei nomi
L'impero dei segni
di Piergiorgio Odifreddi
Ormai molto tempo fa, un matematico si recò a Londra per un anno sabbatico. Una serie di circostanze fortuite (e, col senno di poi, anche fortunate) lo fecero rifuggere dal dipartimento nel quale avrebbe dovuto compiere le sue ricerche, e rifugiare alla British Library: la stessa nella quale anche Karl Marx si era rintanato a scrivere Il capitale. Il luogo dev'essere evidentemente propizio, perchè anche Luigi Borzacchini vi trovò le condizioni favorevoli per concepire e iniziare un'opera «rivoluzionaria»: invece di continuare ad arrampicarsi sui rami dell'albero della conoscenza, come fanno gli scienziati, il matematico incominciò infatti a scavare per dissotterrarne le radici, come fanno gli archeologi del sapere. Naturalmente non era il primo, ma per quanto riguarda la matematica divenne il migliore: perchè i risultati dei suoi anni di scavi, che oggi vedono finalmente la luce in questo libro, costituiscono una pietra miliare paragonabile ai Lineamenti di storia della lingua greca di Antoine Meillet, a La cultura greca di Bruno Snell, e allo Gnomone di Paolo Zellini. Opere, cioè, che indagano non che cosa i Greci abbiano potuto fare col greco, ma che cosa il greco abbia potuto fare per i Greci e per noi: ovvero, come si siano evolute le strutture del linguaggio di ieri per rendere possibile non solo l'espressione, ma anche la concezione del pensiero logico e formale sul quale si basano la matematica, e dunque la scienza, e dunque la tecnologia che caratterizzano la nostra vita di oggi. Non c'è infatti bisogno di conoscere la cosiddetta ipotesi di Whorf-Sapir per intuire che la struttura di un linguaggio finisce per determinare la struttura del pensiero che in esso si esprime: bastano anche osservazioni banali, come quella che il modo di concepire il futuro dipende dal modo in cui la lingua ci permette o ci costringe a parlarne nel presente. Perchè mentre del passato abbiamo memorie interpersonali, che ce lo fanno percepire come fisi(ologi)co e oggettivo, sul futuro abbiamo soltanto desideri personali, che ce lo rendono mentale e soggettivo: non a caso, in indoiranico e nel greco antico il futuro era espresso attraverso l'ottativo, cioè un presente «desiderativo», e in inglese moderno continua a essere espresso attraverso le forme ausiliarie «will» e «shall», che esprimono appunto «volere» e «dovere». Ancora più banalmente, le parole del linguaggio sono divise in tre categorie fondamentali: i sostantivi, gli aggettivi e i verbi, che servono a indicare oggetti, proprietà, e azioni. Ora, i nostri bambini hanno più facilità a distinguere gli oggetti che le azioni, e imparano più facilmente i sostantivi che i verbi: in accordo col fatto che le lingue moderne hanno in genere più sostantivi che verbi. Oggi il mondo ci appare dunque più naturale come insieme di cose che come insieme di eventi, ma non è sempre stato cosí: in greco antico, ad esempio, era vero il contrario, e i nomi erano in gran parte derivati verbali. Una delle incomprensioni fra analitici e continentali, che si ispirano rispettivamente all'inglese e al greco, ha probabilmente le sue radici proprio qui: nel fatto che gli uni pensano in termini di sostantivi e oggetti, e gli altri di verbi e azioni. Ma l'incomprensione maggiore si basa sul verbo essere, le cui analisi costituiscono uno dei pezzi forti di questo libro. Perchè nella filosofia continentale i discorsi sull'essere sono fondamentali, mentre nella filosofia analitica non si possono neppure fare! L'ipostatizzazione del verbo «einai», «essere», nel sostantivo «to einai», «l'essere», introdotta per la prima volta nel terzo secolo dell'Era Volgare dal neoplatonico Porfirio in un commento al Parmenide di Platone, non è infatti grammaticalmente traducibile in inglese, dove si può dire «the being», «l'(ess)ente», ma non «the (to) be». Come se non bastasse, gli arruffoni continentali tendono a non disambiguare i molteplici usi del verbo essere, provocando le ir(oni)e dei più sofisticati analitici: dalla sferzante decostruzione di Heidegger da parte di Rudolf Carnap nel 1931, in L'eliminazione della metafisica mediante l'analisi logica del linguaggio, all'esila- rante recensione Severino, il nulla e l'identità di Massimo Mugnai nel 1997, su «La Rivista dei Libri». La disambiguazione del verbo essere è ormai codificata nel linguaggio formale della logica matematica, che usa simboli diversi per le sue varie accezioni (veridica, esistenziale, copulativa, di appartenenza, di inclusione, di identità), ed è riassunta da Borzacchini in una tabella che può costituire, per chi non l'abbia mai vista o non ci abbia mai pensato prima, una vera e propria epifania. L'essere è naturalmente collegato all'altro grande tema dell'archeologia del pensiero formale, e dunque di questo libro, che è la verità. Già in sanscrito i due termini («sat» e «satyam») erano omologhi, e sia nella filosofia indiana dei Nyaya-Vaisesika che in quella greca di Platone e Aristotele, «vero è ciò che è, e falso ciò che non è». E se la verità è legata all'essere, sarà anch'essa un concetto da disambiguare, pena il fraintendimento del modo in cui lo intendevano i Greci e i Romani una volta, e in cui lo intendiamo noi oggi. I Greci usavano due concetti diversi, ma simili: «alétheia» e «apokálypsis », nei quali risuonano gli echi della dea Lethe e della ninfa Calipso. La prima era la personificazione dell'oblio, e dava anche il nome al fiume mitologico nel quale le anime morte si immergevano per dimenticare la vita passata e prepararsi alla reincarnazione. La seconda, che nell'Odissea tiene Ulisse prigioniero per sette anni sull'isola di Ogigia e gli dà tre figli, era sempre raffigurata col capo velato, e il suo nome significava appunto «Velata» o «Nascosta». La verità descritta da «alétheia» e «apokálypsis» era dunque, da un lato, qualcosa di «indimenticabile» o, almeno, di «indimenticato», e dall'altro una «rivelazione» o una «scoperta»: si trattava, cioè, della verità razionale che si palesa o emerge nel pensiero, e della verità scientifica che si scopre o si disvela nell'osservazione. I Romani usavano invece, ovviamente, il termine «veritas», che deriva da una radice indogermanica («ver») che indica una «barriera » che ricopre o nasconde, invece di scoprire o svelare: l'esatto contrario, dunque, del vero greco, e piuttosto della stessa natura dello «pseudos», il falso: ossia, di ciò che sembra ma non è. Ma anche qualcosa che si erge «diritto», come la legge: opponendosi questa volta al «torto», che va riparato o raddrizzato: si trattava dunque di un concetto giuridico, e non logico. Letteralmente, vero era ciò che si poteva «verificare» con un «verdictum», «rendere vero» con una «dichiarazione di verità», e dunque qualcosa da accettare sulla parola dei giudici o del codice. Si trattava dunque della verità di fede, che è di una natura completamente diversa dalla verità di ragione: usare per entrambe la stessa parola è soltanto un equivoco, che non può che generare confusione (e la genera, anche oggi). È questo il genere di problemi che affronta il libro di Borzacchini, scavando a fondo nelle parole per dissotterrare ciò che esse nascondono. E leggerlo può avere per il lettore lo stesso effetto che ebbe la lettura di Hume per Kant: quello di risvegliarlo dal proprio «sonno dogmatico», facendogli capire che dietro ai concetti logici e matematici si cela una storia affascinante che testimonia del loro passato, e permette di ricostruire la genesi del pensiero formale in tutte le complesse articolazioni del suo presente, dall'uguaglianza al numero, dall'incommensurabile al continuo. Immergersi in queste profonde e rigorose pagine non è però uno sport adatto per coloro che amano sguazzare nelle superficialità sconclusionate, come quelle proposte da Giovanni Semerano in L'infinito: un equivoco millenario (Bruno Mondadori, 2001). Chi apprezza coloro che sollevano un polverone nel fittizio arsenale delle lingue mediorientali antiche, per poi partorire la misera conclusione che in sumerico o accadico «infinito» voleva dire «polveroso », sa dove rivolgersi. E chi invece pretende erudizione seria, argomenti coerenti e risultati significativi, anche. In fondo, i dilettanti possono anche rovistare nel fango credendo di cercar pepite, ma solo i cercatori d'oro professionisti sanno dove e come scavare per trovarle.
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