L'efficienza insignificante
Saggio sul disorientamento
Nell’epoca dell’efficienza siamo tutti chiamati a eccellere, a rimanere al passo con i tempi. Fermarsi è segno di inadeguatezza, una colpa; quasi un’ammissione di sconfitta. Esiste una via di uscita?
- Collana: Strumenti / Scenari
- ISBN: 9788822053770
- Anno: 2009
- Mese: marzo
- Formato: 14 x 21 cm
- Pagine: 160
- Tag: Società Sociologia Filosofia
Ci troviamo, oggi, dinanzi a un incredibile potenziamento dei mezzi a disposizione per comunicare, lavorare, produrre, incrementare, potenziare e migliorare la gamma delle nostre prestazioni. È come se, per la prima volta nella nostra storia, si facesse largo l’idea che in linea di principio non v’è più alcun ostacolo alla possibilità di disporre in modo incondizionato non solo del mondo, ma anche di noi stessi. Tuttavia, in questa sterminata proliferazione di dispositivi funzionali, qualcosa sembra paradossalmente non funzionare come dovrebbe. La «macchina» gira a una velocità inaudita, ma in questo vortice – che la nostra quotidianità subisce come un destino inevitabile – fatichiamo a trovare una collocazione capace di donare senso alle nostre azioni. Il disorientamento è totale.
Cultura dell’effimero, iperattivismo sfrenato, comunicazione senza contenuti, sono alcuni dei fenomeni analizzati nelle pagine del libro, con l’obiettivo di disegnare il profilo dell’epoca in cui viviamo, e aiutarci a capire «dove siamo finiti». Ma anche da dove, forse, è possibile ricominciare. Il volume costituisce un’impietosa riflessione sull’ideologia contemporanea e sui suoi meccanismi di dissimulazione; da ogni pagina traspare l’insofferenza e il disagio nei confronti di una cultura rassegnata e opportunista, del tutto incapace di assumersi la responsabilità per una progettualità di lungo respiro.
Introduzione - Estranei a se stessi – 1. Avere, non avere tempo. Una lettura della cultura della comunicazione e dell’informazione - Tempi della cultura - Post-moderno disincantato - Nietzsche capovolto - La vita offesa - Identità fragili - Per una cultura critica – 2. Smemorata memoria. Motivi di un declino - Discontinuità e smemoratezza - Cura temporale di sé e simultaneità - Per una storia interiore - La storia esteriore - Crisi della memoria – 3. Dell’utopia - Spazio e tempo - Utopia versus storia, utopia come storia - Critica e accelerazione della storia - Il tempo come spazio dell’utopia – 4. Il divenire spaziale del tempo. Imposture dell’innovazione - La Storia della rivoluzione - L’epoca dell’emancipazione - Rivoluzione e detemporalizzazione della Storia - Progresso/regresso. Le velocità della Storia - Presentificazione del tempo – 5. Attendere invano. Una rilettura delle Tesi di Walter Benjamin - Il presente e l’indifferenza temporale - Il presente e l’appuntamento con la storia - Abbandonati dal tempo – 6. Mercificazione della vita e vitalità delle merci. Su un’inversione di ruoli - Il disincanto incantato - La sospensione del presente - Merce e moda - L’incessante «renovatio» - Mezzi come fini, individui come mezzi – 7. Equivoci della mondializzazione. La fine del cosmopolitismo - La domanda - Scena del mondo e poteri - Alterità e altrove sotto il regime della produzione - Pareti sottili, porte a tenuta stagna - Kant dismesso
Introduzione
Estranei a se stessi
Una interpretazione è crollata: ma poiché era ritenuta l’unica interpretazione, sembra che non ci sia più un senso dell’esistenza, che tutto sia vano.
Il tempo [...] è un prestissimo: le impressioni si dileguano; ci si difende istintivamente dall’assumere qualche cosa, dall’accoglierla nel profondo, dal digerirla.
[...] Contrasto tra la mobilità esterna e una certa profonda pesantezza e stanchezza.
Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza
«Niente di quel che mi accade mi appartiene, niente è mio» dice l’Io quando si persuade di non essere di qui, di aver sbagliato universo e di non avere scelta se non fra l’impassibilità e l’impostura.
Emil M. Cioran, La caduta nel tempo
Siamo circondati da strumenti raffinatissimi: macchine veloci, precise, performanti, ma anche estetiche, piacevoli al tatto, invitanti all’uso. Abitiamo un ambiente tecnologico sofisticato che rende produttivo il nostro lavoro, rapidi i nostri spostamenti, efficaci le nostre comunicazioni.
La razionalizzazione dei processi, dei mezzi, dei metodi, tutto ciò che serve a organizzare al meglio le nostre azioni, a raggiungere obiettivi sempre più ambiziosi, a ponderare il rapporto tra risorse e fini, è oggi sotto i nostri occhi, a portata di mano. È la realizzazione del grande sogno di una modernità che, prontissima ad avviare in questo campo le politiche di sviluppo più adeguate, su altri fronti non si è invece dimostrata così pronta. Disponiamo di un’immensa capacità operativa. Essa è dentro le nostre
case, i nostri ambienti di lavoro. È sotto le nostre dita, quando digitalizziamo messaggi, quando clicchiamo ordini di invio ori chieste di informazioni. È sotto i nostri piedi, quando l’auto v ettura nella quale siamo comodamente seduti accelera o frena bruscamente per evitare un ostacolo inatteso. È dentro i nostri corpi per supplire organi compromessi, per correggere funzioni lese, per rivitalizzare tessuti usurati, per spingere oltre il limite umano prestazioni e facoltà. È nel nostro stesso aspetto fisico, quando
un difetto di origine, o semplicemente un carattere ritenuto tale, viene corretto, migliorato, maggiorato, eliminato.
Eppure, a fronte di tutta questa potenza in grado di aumentare e velocizzare le nostre prestazioni, di rendere più efficienti le procedure della nostra produttività lavorativa, di agevolare transazioni e comunicazioni, qualcosa non funziona. Sempre di più, questa potentissima operatività che ci ritroviamo tra le mani ci appare come povera di senso. Fatichiamo a trasformarla in un elemento produttivo di significato per le nostre vite. Ne disponiamo, poiché non è più possibile fare altrimenti, ma il suo riverbero sulle nostre identità e sul senso che riusciamo ancora ad attribuire alla nostra vita, appare debolissimo, quando non del tutto nullo. Il più delle volte, siamo immersi in un attivismo che ha smarrito il suo motivo di fondo. È compulsivo, frenetico, autoreferenziale. Deve essere costantemente eccitato e stimolato per potersi mantenere ai livelli richiesti dagli attuali standard produttivi. Tuttavia, si tratta di una vitalità solo apparente. Nei fatti, è un attivismo inanimato. Lavoro, comunicazione, produzione, profitto non sembrano avere altra finalità se non il loro stesso potenziamento, al di fuori di ciò non v’è altro. Possiamo fare di più e meglio, in sempre meno tempo. E poi?
Il titolo del libro allude dunque a questo squilibrio tra potenza dei mezzi e povertà del senso. Lo smarrimento è tangibile. Il disagio si moltiplica, la devianza assume forme incomprensibili e quando diventa violenza la sua gratuità ci lascia esterrefatti. Ma non è necessario spingersi così in là. È sufficiente guardarsi intorno, per constatare come insoddisfazione, frustrazione e risentimento (tre aspetti con i quali saremo sempre di più confrontati in futuro) incrinino progressivamente il nostro rapporto con le situazioni, con le cose, con le persone che ci circondano. Una stanchezza cronica accompagna le nostre giornate. Stress e iperattivismo sono ormai diventati i consueti supporti di un incremento produttivo che ha smarrito qualsiasi senso del limite: strumenti di lavoro come altri. E poi, insoddisfazione sul posto di lavoro, nella coppia, nelle relazioni affettive, nella relazione con il proprio corpo.
Però, quando ci chiediamo quale sia esattamente il senso di cui percepiamo il dileguamento, le risposte sono confuse. Di che cosa, esattamente, saremmo rimasti orfani?
Le analisi che qui presento desiderano sfuggire a questa indeterminatezza. Per questa ragione, anziché parlare genericamente di crisi del senso e affini, ho cercato di ricostruire alcune situazioni che ci aiutino a comprendere come e perché, dinanzi a determinate logiche, la vita più che sentirsi offesa (come direbbe Adorno) si senta irrimediabilmente disorientata. Il disorientamento dinanzi a uno strumento, a un comportamento, a uno stile cognitivo, alla richiesta di una prestazione equivale a ciò che Günther Anders chiama l’antichità dell’uomo rispetto all’odierna riorganizzazione tecnologica del mondo. A differenza però della «vita» di Adorno e dell’«uomo» di Anders, il soggetto di cui si parlerà nelle pagine seguenti corrisponde a una determinata forma di vita, colta e pensata indipendentemente dai possibili modelli della sua idealizzazione. Ho quindi cercato di vedere che cosa possono essere oggi le nostre identità. E l’ho fatto attraverso una lente che non è quella dell’esistenza in generale, così come essa dovrebbe essere, bensì quella dell’esistenza quale effetto di una configurazione storico antropologica specifica che finisce con il collidere con altre configurazioni storico-antropologiche. I modelli identitari che abbiamo ereditato dalla tradizione della modernità hanno certamente ancora corso. Tuttavia, i valori attraverso i quali essi sono stati edificati, confliggono con le nuove configurazioni identitarie che si stanno definendo oggi, attraverso nuove pratiche lavorative, nuove forme di consumo, nuove narrazioni di sé. […]
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