La comunicazione interrotta
Etica e politica nel tempo della «rete»
Lo smarrimento dell'identità personale in una società della comunicazione frammentaria.
- Collana: Strumenti / Scenari
- ISBN: 9788822053411
- Anno: 2004
- Mese: febbraio
- Formato: 14 x 21 cm
- Pagine: 176
- Tag: Filosofia Linguaggio Comunicazione Etica
La nostra, così si dice, è una società della comunicazione. Tuttavia, basta prestare un minimo di attenzione alle nostre odierne situazioni di vita per constatare un fenomeno curioso: la ripetuta frammentazione della comunicazione interpersonale, proprio a causa dei diritti della comunicazione stessa. Come se il fatto di essere raggiungibili, sempre e ovunque, costituisse ormai un imperativo categorico a cui subordinare lo stesso atto della comunicazione. Dobbiamo predisporci al flusso ininterrotto dei messaggi e delle informazioni, anche quando questo significhi spezzare continuamente il filo delle conversazioni in corso. La comunicazione è interrotta perché ciò che conta è verificare costantemente l'efficacia, la funzionalità e la rapidità delle possibilità interattive del sistema che articola tecnicamente la comunicazione. Vi è qui una ideologia che il libro cerca di individuare, interrogandosi sulla trama temporale propria del nostro presente: quella inarrestabile frantumazione del "continuum" a cui le nostre esistenze si confrontano quotidianamente.
Prefazione, L'eterno presente della comunicazione - I. COMUNICAZIONE, POLITICA, STORIA - 1. La comunicazione è interrotta I - Una lettera a Fulvio Papi - 2. La comunicazione è interrotta II - Una risposta - 3. La politica nella crisi del tempo storico - Nota per un'etica del presente - Prologo - Incredulità - Epilogo - 4. - Politica e storia. L'impostura della fine delle ideologie - Equivoci - Ideologia sempre di nuovo - Grandi spazi, tempi brevi, vuoti simulacri - II. SAGGEZZA, TECNICA, SALVEZZA - 5. Scienza e saggezza. Scene da un divorzio - Un luogo comune - Lo spazio delle applicazioni - Passaggio del testimone e compresenza - Distinguere e separare - Storie parallele, storie incrociate - Filosofia della vita - 6. Cura di sé e cura del mondo. Di alcune possibili derive - I termini del problema - Tecnicizzazione e onnipotenza - Spiritualizzazione e autosufficienza - 7. Nuova era, quante storie. Di alcune incomprensioni - Il fenomeno - Compensazioni, derive, reinvestimenti - Visibile e invisibile - 8. Tre promesse della tecnica - Tempi della promessa e promesse fuori tempo - Introduzione - Essenza - Umanità - Superamento dei limiti - III. FIGURE DELLA STORICITÀ - 9. Universalità, identità, conflitti. Idee per una ridefinizione post-metafisica del concetto di storicità - La creatura e «i colpi della cieca morte implacabile» - Strategie del simbolico - Il simbolico e le figure di mondo - La storicità post-metafisica: una dimensione del conflitto - 10. Mondo, soggetto, senso. Condizioni della «storicità senza storia» - La questione - Excursus. Promesse non mantenute: la nostalgia di Heidegger - Il mondo con la Storia e il mondo senza Storia - Una cattiva e insufficiente elaborazione del lutto? - 11. Mercato e utopia. Suggestioni dal Faust di Goethe - Storia dell'utopia e utopia della Storia - La lezione di Goethe - L'utopia topica
Nel progetto originario, questo libro avrebbe dovuto intitolarsi Marginalia. Prima di tutto un omaggio, modestissimo omaggio, a Theodor W. Adorno. All'ineguagliabile lezione dei suoi sguardi minimi sulla quotidianità, con la loro straordinaria capacità aforistica di penetrare la superficie delle cose (abitudini, comportamenti, discorsi, mode, ricordi), di illuminarla con una luce pietosa e, al contempo, crudele; a quell'attenzione insieme disincantata, scaltra e ingenua (proprio perché sempre carica di teoria) che gli ha permesso di sottrarre le diverse aree del mondo quotidiano all'abbraccio legittimante della familiarità, per inscriverlo in un'altra storia. Dove a mutare, poi, è il nostro stesso sguardo su di noi.
Prefazione
L'eterno presente della comunicazione
Tutti devono avere continuamente qualcosa da fare, devono coltivare e portare avanti qualche progetto. Il tempo libero deve essere consumato e utilizzato fino in fondo. Esso viene programmato, impiegato in iniziative di vario genere, speso a partecipare a tutte le manifestazioni […] o anche solo negli spostamenti più rapidi possibili da un luogo all'altro. Tutto ciò non può fare a meno di proiettare la sua ombra sul lavoro intellettuale. Esso viene eseguito, ormai, con un senso di colpa, come se il tempo dedicato ad esso fosse rubato ad altre occupazioni urgenti […]. E allora, per giustificarsi di fronte a se stesso, esso addotta il piglio dell'attività febbrile, dello sforzo frenetico, dell'impegno professionale soggetto a scadenze precise e continuamente ossessionato dalla mancanza di tempo: un atteggiamento che è di ostacolo a qualsiasi riflessione e quindi, in ultima istanza, al lavoro intellettuale stesso. T.W. Adorno, Minima moralia
In secondo luogo, un segno di gratitudine nei confronti del lavoro seminariale svolto mensilmente, con alcuni colleghi, allievi e amici, in seno alla redazione della rivista di filosofia Oltrecorrente, nei locali della Fondazione Corrente a Milano, di cui alcuni dei capitoli qui presentati riprendono il filo, rielaborando materiali pubblicati nella sezione monografica oppure nella rubrica intitolata appunto Marginalia e destinata ad interventi brevi su temi legati alla nostra contemporaneità. Col passare del tempo, però, questa stessa contemporaneità ha preso il sopravvento. Imponendo un diverso titolo al libro (ovviamente senza mutare di una virgola l'indirizzo dell'omaggio e quello della gratitudine) e suggerendo il tema dei primi due capitoli, redatti nella forma dello scambio epistolare: una lettera a Fulvio Papi, con relativa risposta, sulla questione della comunicazione. Come interpretare l'attuale appello alla comunicazione, ai suoi mezzi, alle sue strategie, all'urgenza della sua efficacia? Quale significato attribuire all'insistenza con la quale oggi ci si richiama all'azione comunicativa? «Comunicazione» è un termine che ha finito addirittura per identificare la specificità stessa dell'epoca attuale. Siamo, così si dice, nell'era (o nella società) della comunicazione, e comunicare è il valore aggiunto di tutto un novero di azioni (formative, mercantili, conoscitive, evasive) la cui riuscita è subordinata al coinvolgimento, potenzialmente senza limiti, degli altri, indipendentemente da quale sia il luogo in cui si trovino e da cosa stiano facendo. Quando però si guardi alla concretezza quotidiana delle nostre odierne situazioni di vita, si è obbligati a constatare un fenomeno curioso: la continua frammentazione della comunicazione interpersonale, proprio a cagione dei diritti della comunicazione stessa. Una frammentazione determinata, cioè, dall'imperativo, che ognuno di noi comincia a sentire come categorico, di essere continuamente raggiungibile dal, e quindi predisposto al, flusso ininterrotto dei messaggi, a discapito degli scambi comunicativi in corso: la comunicazione è interrotta. La comunicazione è oggi costantemente interrotta, perché ciò che più conta è verificare costantemente l'efficacia, la funzionalità e la rapidità della possibilità comunicativa del sistema che articola tecnicamente la comunicazione. L'interruzione del continuum dei discorsi è l'affermazione di un qui e ora senza storia, presente senza memoria, presente che vive del suo solo ripresentarsi, eterno presente pago di sé. Il che ha, certamente, a che vedere con il modo in cui oggi si sta riconfigurando l'esperienza del nostro essere per e con gli altri. Forse addirittura del nostro essere per gli altri a discapito dell'essere con gli altri, secondo l'idea di una disponibilità ubiquitaria, cioè di una presenzialità potenzialmente incondizionata, assoluta, sciolta dall'hic et nunc dei diversi contesti spazio-temporali attraverso cui transitano giornalmente le nostre esistenze. Su questi temi non mi è però stato possibile offrire una riflessione sistematica; per questo ho scelto di adottare il genere letterario dell'epistola, più libero e meno severo rispetto al saggio. I diversi argomenti sono affrontati, per così dire, in modo solo cursorio, le domande superano di gran lunga le risposte, così che il sospetto da cui sorgono rimane per ora tale. D'altro canto, il fatto di aver scelto proprio questa forma comunicativa, ormai inattuale se non decisamente arcaica, potrebbe non essere causale, e rivelarsi un ottimo terreno dove sperimentare, a contrario, il modo in cui i più recenti mezzi comunicativi destrutturano, per renderli funzionali al loro assetto, i contenuti stessi della comunicazione. Fulvio Papi ha risposto gentilmente alla mia lettera, con un testo che, come detto, occupa il secondo capitolo della prima parte. Lo ringrazio per essersi prestato al «gioco» (non è la prima volta) e per la generosa disponibilità. La prima parte del libro è dominata dalla domanda sulla trama temporale del nostro presente, e pone quindi più o meno direttamente la questione del rapporto tra identità ed epoca. Vivere il presente, con la piena consapevolezza di appartenervi, fare del presente l'elemento decisivo della propria autocoscienza (se c'è un'epoca che ami definirsi, ebbene questa è proprio la nostra: epoca della post-istoria, epoca post-moderna, epoca della globalizzazione, ipermodernità ecc.), è certamente una prerogativa storicista. Chiedersi qual è la modalità dominante del tempo che struttura le nostre pratiche odierne, sino a determinare i contenuti stessi dei nostri discorsi, significa dunque condividere un orizzonte culturale preciso – del resto nessuna domanda può mai godere di una pertinenza assoluta. Anche se la risposta dovesse mostrare, com'è il caso, lo scarto che ci separa ormai dal continuum temporale dello storicismo: siamo «moderni» nella domanda, ma non lo siamo più nella forma di vita. Il che potrebbe avere qualche conseguenza sul modo in cui viene valutata (e prima ancora vissuta) l'esperienza di questa nuova temporalità. Comunicazione, politica e storia, sono i tre poli a partire dai quali ho cercato di individuare alcuni possibili significati di questa frantumazione del continuum: sovrapposizione di presenti che tendono ad elidersi, per potersi assolutizzare (nel primo caso); necessità di una coerente elaborazione del lutto della Storia (nel secondo); affermazione dell'autosufficienza del presente (nel terzo caso). Se il futuro è ancora solo un'intensificazione di risorse che sono comunque già tutte disponibili, almeno in linea di principio, e se il passato non è che oblìo necessario al processo di intensificazione – o tutt'al più archivio di informazioni a portata di mano –, il tempo storico allora è assorbito dall'immagine di un presente bastante a se stesso, perfettamente autoreferenziale, estraneo a quella differenzialità senza la quale non è immaginabile nessuna apertura in direzione di un altrove. Questa omogeneità del tempo (una nozione che convive perfettamente con la sua accelerazione e con uno stato di perenne trasformazione) evoca immediatamente la critica di W. Benjamin alla storia additiva e senza arresti dello storicismo. Il fatto è che lo scardinamento del «continuum della Storia», che è quanto sperimentiamo noi oggi, non è sufficiente a togliere la Storia dalla sua chiusura. Anzi, se oggi si dà chiusura è precisamente in virtù dell'affermarsi di un presente (Jetztzeit) irrelato, che pretende di assorbire in sé ogni tempo, per essere quindi senza tempo, appunto in quanto tutto del tempo: irrelato, dunque, proprio perché assoluto. È questa una situazione di cui può giovarsi la politica, o è il suo rifugiarsi nella mera amministrazione dell'accadere? Di sicuro è una situazione che ha giovato all'ideologia, proprio nel momento della massima espansione dei discorsi sulla fine delle utopie. Non poter più guardare altrove (l'altro della Storia), sapere di non poter più giocare alcun ruolo (una questione di identità) rispetto a questo altrove, poiché esso è stato ampiamente superato dal qui e ora, sono esperienze che ridisegnano completamente non solo il nostro rapporto al mondo e al tempo, ma anche l'immagine stessa del mondo e del tempo. L'appiattimento del tempo sul mondo dato – giacché è di ciò che si tratta –, in quanto effetto della replica della «durezza del reale» ai discorsi sui «mondi possibili», conduce con sé l'idea del presente come unica risorsa temporale disponibile. Su questo terreno ha potuto fiorire, in particolare, la grande ideologia (prevalentemente di stampo economicistico) della fine delle ideologie (e quindi, come detto, anche delle utopie) tutta tesa a consacrare la vittoria del presente sul futuro: ideologia capovolta, rispetto all'ideologia dei grandi racconti, sempre e comunque ideologia dove il presente si compiace di essere arrivato proprio là dove non è, invece, riuscito ad arrivare il futuro: molto oltre il contenuto delle aspettative liberatorie e ugualitarie giustificate da quella che, sopra, ho chiamato la «differenzialità» del tempo. Il che significa che, secondo questa ontologia del tempo, se ci sarà futuro, sarà ancora solo come futuro del presente, vale a dire di questo presente: ripetizione della sua eternità, intensificazione delle sue logiche, assolutizzazione dei suoi princìpi. Il futuro non è abolito, il suo senso (nella doppia accezione del termine: significato e direzione) è però prevalentemente quello di assicurare, su scala geografica, l'universalizzazione di ciò che è comunque già in atto, sebbene non ancora sufficientemente generalizzato. La topologia sopravanza la Storia, proprio nel momento in cui il presente cessa di orientarsi temporalmente, per darsi una proiezione di ordine prevalentemente spaziale. Come estensione geografica di questo presente (il presente vincente della cosiddetta economia dell'informazione), la mondializzazione è allora l'epifenomeno di una temporalità defuturante, in cui la possibilità dell'altrove è stata soppiantata dalla realtà dell'ovunque: sempre (reiterazione) e ovunque (estensione e dislocazione) ripetizione di questo medesimo presente. Nella seconda parte del libro, la questione della qualità presente del tempo (e delle forme odierne della comunicazione, proprio in quanto traduzione materiale di questa qualità) è affrontata solo indirettamente. A partire da esperienze che mettono piuttosto in primo piano la soggettività, con i suoi processi costitutivi. E questo, almeno a tre livelli: quello del rapporto tra scienza e saggezza, quello del potenziamento (tecnico o «naturale ») delle facoltà umane, quello delle promesse della tecnica. In che modo si costruisce il moderno soggetto della scienza e della tecnica? Da quale storia deriva la sua attuale comprensione del valore e della necessità del sapere? Sono due domande alle quali il libro cerca di rispondere esaminando il significato per la conoscenza (e dunque per chi, di volta in volta, ne fa esperienza) della frattura tra scienza e saggezza. Quando e per quali ragioni, a partire da un certo momento, scienza e saggezza hanno smesso di appartenere allo stesso orizzonte, con quali effetti sui contenuti del sapere, sul suo stile e sulla ridefinizione delle identità coinvolte? Che cosa significa appropriarsi di un sapere che non apre più direttamente alla dimensione della saggezza? Oggi la saggezza, nella forma specifica dell'etica, è convocata a dirimere dilemmi che, pur esorbitando completamente dai mezzi di comprensione della scienza, sono provocati proprio dalla stessa scienza. La saggezza diviene così una risorsa da mobilitare aggiuntivamente, dall'esterno e après coup, quando le implicazioni di una determinata conoscenza superano, per le conseguenze cui possono dare luogo, l'ambito di pertinenza delle strategie che l'hanno generata. Il che significa riconfermare la prospettiva della neutralità assiologica della scienza, facendo appunto intervenire un sapere di ordine diverso su un campo che, per quanto prodotto proprio dalla scienza, rifiuta il potere della sua presa. Si parla allora anche di impotenza della scienza. La saggezza ha poi a che vedere con la costruzione di un possibile ideale di identità, come hanno mostrato bene le analisi dell'ultimo Foucault sulla «cura di sé». Quando però, come accade oggi nel contesto delle culture ispirate alla New age, essa viene tradotta all'interno di pratiche che ridisegnano il senso degli accadimenti (di ogni possibile accadimento) riconducendolo narcisisticamente all'individualità delle singole biografie («ciò che fa senso per me»), si assiste al tentativo solo apparentemente reattivo di sovrapporre una trascendenza privata al quadro pubblico dell'immanenza spazializzata (un altro nome per la topologia). Dunque, non al fine di sottrarsi alle sue regole, ma per attuarle grazie al dispiegamento di una corporeità e di una comportamentalità sempre più performanti sul piano dell'azione. Proprio in questa direzione si muovono, paradossalmente, quei discorsi che militano a favore vuoi di un nuovo uso «magico» del corpo, vuoi di un nuovo reincantamento del mondo, in un intreccio che accomuna in modo inedito onnipotenza e sacro. Anche se, beninteso, non è la sola direzione possibile: per questo, il terzo capitolo della seconda sezione individua altre direzioni del fenomeno, mentre quello precedente (capitolo secondo) si sofferma invece sulle sue possibili derive. Saggezza, salvezza e tecnica sono i termini attraverso i quali, nella seconda parte, ho cercato di elaborare questi temi, dove il tempo della comunicazione, nella sua forma odierna, interviene una volta come domanda di riparazione degli effetti della specializzazione dei saperi (capitolo primo); un'altra volta come possibile ridefinizione del racconto del sé (capitolo secondo); un'altra volta ancora come traduzione degli eventi del mondo al di fuori della loro visibilità e funzionalità quotidiane (capitolo terzo); e infine, come superficie piana detemporalizzata (capitolo quarto). Infine, i tre capitoli della terza parte del libro costituiscono un approfondimento di alcune tematiche affrontate; seguendo – questa volta – una direzione che interroga l'idea della cosiddetta «fine della Storia», non tanto per vedere come e perché la Storia abbia cessato di presentarsi quale orizzonte unitario dei diversi mondi vitali, quanto piuttosto per cercare di capire dove sia «andata a finire», cioè in quali nuove figure della prassi, la sua vecchia rivendicazione di universalità. Se nelle righe precedenti è stato possibile parlare del tempo presente della comunicazione come di un'ontologia non è, intendiamoci, allo scopo di alludere ad un fenomeno che trascenda le nostre vite per imporre le sue logiche a desideri, volontà, comportamenti, o eventualmente per generare frustrazioni. Il tempo è sempre un portato delle nostre pratiche quotidiane, e dunque, nelle sue diverse forme, nasce e muore con esse. Anche in questo caso, è solo lì che dobbiamo andare a guardare. Il trascendentale non è mai prima, sotto o altrove rispetto al qui e ora dei suoi presunti effetti: è sempre e soltanto in essi. Il che significa pensare a effetti che hanno incorporato le loro condizioni di possibilità: sono quello che sono perché ci sono pratiche che li fanno essere come sono, secondo una necessità che non dipende da altro se non dal modo in cui si danno quelle stesse pratiche. Sono così non perché non potrebbero essere altrimenti, ma perché è così che vengono effettuati dalle pratiche in atto in quel momento. Il tempo della comunicazione si accompagna ad una pratica della comunicazione che si consolida, poiché trova questa qualità del tempo come orizzonte stesso della sua legittimazione. Ed è proprio qui che si gioca, per l'uno e per l'altra, la loro stessa possibilità di essere. Un ringraziamento particolare mi è gradito rivolgerlo ai colleghi dell'Istituto Svizzero di Pedagogia di Lugano che, con il loro ostinato lavoro di riflessione sulla cosiddetta implementazione delle nuove tecnologie nel campo della formazione, mi hanno insegnato dapprima a vedere la Tecnica attraverso le diverse tecnologie, poi a non vedere più che le diverse tecnologie. Desidero poi anche ringraziare di cuore Flavio Cassinari e Franco Ferrari per le discussioni proficue su alcuni temi del libro, e non da ultimo i colleghi e gli studenti del Dottorato di Ricerca in «Profili della cittadinanza nella costruzione dell'Europa », promossa da Pietro Barcellona all'Università di Catania dove, in due cicli di lezioni, mi è stato possibile presentare materiali confluiti nella Prefazione e nel primo capitolo. Il libro è dedicato ai miei nonni, Martina e Glauco: parva libellum sustine patientia.