Piccole variazioni sulla scienza
prefazione di Giuseppe O. Longo
postfazione di Silvano Tagliagambe
con una nota di Marcello Cini
Se la ricerca scientifica è il tema principale della nostra cultura, questo libro mette in guardia contro le tentazioni ideologiche, per non dimenticare che la scienza è, soprattutto, una pratica cognitiva.
- Collana: La Scienza Nuova
- ISBN: 9788822002686
- Anno: 2016
- Mese: luglio
- Formato: 14 x 21 cm
- Pagine: 256
- Note: illustrato
- Tag: Scienza Filosofia della scienza Epistemologia Fisica Storia della scienza
Non c’è dubbio: la scienza è il basso ostinato del tempo, il tema principale della nostra cultura. I giornali dedicano uno spazio crescente all’ultima scoperta, i festival e le letture pubbliche veicolano le nuove visioni del mondo e la lettura scientifica dei fatti e dei comportamenti fa capolino anche nel quotidiano. Il rischio è quello di dimenticare che la scienza è una pratica cognitiva,non una piramide di verità rivelate e accumulate una volta per tutte. Educare alla scienza significa dunque spaziare tra conoscenze variamente interconnesse, attraversate dalle correnti dell’incertezza, evitando cristallizzazioni ideologiche e tentazioni mediatiche di semplificazione.
I saggi qui raccolti si muovono fra fisica teorica, biologia e intelligenza artificiale: l’eredità di Turing, la figura di Majorana, la scala di Planck, il bosone di Higgs, i sistemi viventi, gli agenti economici, il riduzionismo e i processi emergenti, passando per i rapporti tra scienza, letteratura e arte. Il tutto organizzato come una serie di piccole variazioni musicali sul tema delle proiezioni culturali e mediatiche della scienza e delle sue inevitabili implicazioni epistemologiche, etiche, estetiche.
Davanti al muraglionedi Giuseppe O. Longo - Introduzione. La scienza, tra pratica e ideologia - 1. Il sogno di Laplace - 2. Certezza e incertezza nella scienza - 3. La complessità in un guscio di noce - 4. La mente nella macchina - 5. Giochi di Turing. Trittico su Alan - 6. Muro di Planck (e dintorni) - 7. Particella di Dio o bosone di Higgs? - 8. Scienza, democrazia e retorica: il re è nudo? - 9. L’osservatore e il narratore - 10. Figure della conoscenza in Horcynus Orca - 11. Metafisico siciliano - 12. Contro la scienza triste. La complessità degli agenti economici - 13. L’orologiaio cieco e la mano invisibile - 14. Il caso, probabilmente - 15. Il Piano intelligente - 16. Salti logici - 17. Anything Goes: il caso Feyerabend - 18. Residuo fisso. Il mito della scienza pura - Il confine e tante bellissime variazioni di Silvano Tagliagambe - Nota di Marcello Cini - Percorsi di lettura
Capitolo 18
Residuo fisso. Il mito della scienza pura
Se si va a esporsi come schiavi al mercato, che c’è
di strano nel trovare un padrone?
Simone Weil, Sulla scienza
Un racconto “senza attrito”: il mito della scienza “pura”
Nella conclusione del suo Wittgenstein (1993) Derek Jarman fa raccontare all’attore John Quentin (non più nei panni di John Maynard Keynes, dunque fuori dallo “spazio-tempo” del film) una storia suggestiva e iconica della sua lettura del filosofo austriaco:
C’era una volta un giovane che sognava di ridurre il mondo a pura logica. Dal momento che era un giovane intelligente, ci riuscì davvero. E quando ebbe finito la sua opera, fece un passo indietro per ammirarla. Era meravigliosa. Un mondo purgato dall’imperfezione e dall’indeterminatezza. Infiniti acri di ghiaccio luccicante esteso all’orizzonte. Così il giovane intelligente guardò il mondo che aveva creato, e decise di esplorarlo. Fece un passo avanti e cadde lungo disteso sulla schiena. Vedi, aveva scordato l’attrito. Il ghiaccio era liscio, livellato e immacolato, ma non ci si poteva camminare sopra. Così il giovane intelligente si sedette e pianse lacrime amare. Ma mentre cresceva diventando un vecchio saggio, giunse a capire che la ruvidezza e l’ambiguità non sono imperfezioni. Sono quello che fa girare il mondo. Voleva correre e danzare. Le parole e le cose sparse sopra questo terreno erano tutte rovinate e offuscate e ambigue e il vecchio saggio vide che quello era il modo di essere delle cose. Ma restava in lui una nostalgia per il ghiaccio, dove tutto era radioso e assoluto e inflessibile. Benché fosse riuscito ad apprezzare l’idea del suolo ruvido, non riusciva a convincersi a vivere lì. Così ora si trovava abbandonato tra terra e ghiaccio, e in nessuno dei due riconosceva la sua casa.
Il racconto ricalca un celebre passo delle Ricerche filosofiche e si adatta in effetti a una descrizione, seppur semplificata,del passaggio di Wittgenstein dal regno logico del Tractatus (icui confini erano già minacciati dall’indicibile) all’idea che «illinguaggio è una forma di vita» e dunque è intessuto dalla complessitàdelle interrelazioni tra gli agenti, un gioco di contrattazionidal quale emergono obiettivi e significati variamente condivisi.Il racconto si presta ugualmente bene a descrivere duemodi di pensare la scienza: puro esercizio di un metodo asettico,astorico e iperuranico da una parte, pratica artigianale, socialmentee culturalmente situata dall’altra. Per trovare un esempiodella prima concezione non bisogna neppure allontanarsi troppodal tempo di Wittgenstein. La premiata ditta Carnap & co. Durantela fase americana tentò l’impresa di un’enciclopedia internazionaledella scienza unificata che si arrestò dopo pochi volumi essenzialmente per l’assenza di una concezione unitaria di scienza tra gli unificatori. A ben guardare, oggi l’impresa appare non meno ingenua delle sintesi positivistiche di Herbert Spencer (che era però scrittore di grande seduzione), alle quali i reduci del Circolo di Vienna volevano aggiungere un carico “innovativo” di logica formale. In tal modo l’enciclopedia avrebbe realizzato i fasti della più celebre creatura di Diderot con gli strumenti dei Principia Mathematica di Russell e Whitehead. Ma a parte l’unità forzata e puramente teorica di pratiche estremamente diversificate, a cosa sarebbe somigliata la grande sintesi di Neurath, Carnap e collaboratori? Con una descrizione estremamente formalizzata di flussi induttivi e catene deduttive, e dunque spogliata da quella dimensione del “laboratorio” (sia esso teorico e matematico che strumentale) che sola giustifica il concetto stesso di “scienza”? E soprattutto, quale utilità avrebbe avuto? Va detto però che l’ultimo Carnap, uomo di grande onestà intellettuale oltre che generoso attivista delle cause della libertà politica, si avvicinò negli ultimi anni a comprendere l’importanza del contesto in cui una concezione scientifica trovava radici e nutrimento, proponendo una sua versione della famosa tesi di Duhem-Quine (Coniglione, 2008): non soltanto la teoria è sottodeterminata dal dato, come diceva Einstein, ma il dato stesso è intrinsecamente problematico e acquista valenze diverse in scenari diversi, dove per “scenari” intendiamo sia quelli puramente teorici che l’intero complesso delle motivazioni del costruttore di modelli.
Parafrasando il racconto del film di Jarman, vogliamo tentare di comprendere il passaggio dall’idea ingenua di una scienza “senza attrito”, o comunque con un attrito che può rendersi piccolo a piacere come nelle definizioni dell’analisi matematica, a una scienza “mito”, fatta di slogan e di tendenze. In mezzo c’è, o dovrebbe esserci, la scienza praticata. Vorremmo mostrare che quest’ultima non ha nulla a che fare con le sue estremizzazioni “ideologiche”, ma come ogni forma di attività cognitiva, è embodied, e le sue direttrici non seguono soltanto ideali processi auto poietici tutti “interni” alla ricerca, al contrario si intrecciano con quelle che nascono dai bisogni culturali ed economici del corpo sociale. Bisogni che sono una molla intellettuale imprescindibile della ricerca. Non ci sarebbero né cardiologia né poesia se non avessimo un cuore che gioisce, soffre e si ammala! Anzi, cercare di togliere alla scienza il suo embodiment sarebbe come togliere la famosa libbra di carne senza versare una goccia di sangue, la famosa condizione impossibile de Il mercante di Venezia.
Questo non è un dato facile da accettare per molte persone. La scienza è mossa sia dalla voglia di conoscenza, sia da interessi considerati meno “nobili”, come il potere, la paura, l’aggressività e il guadagno. Ne consegue che la comunità scientifica non è fatta (soltanto?!) di persone che cercano e dialogano accanitamente in cerca di verità ultime e profonde sulle quali accordarsi per far luce sugli aspetti segreti e complessi della Natura. Si tratta di una rappresentazione mercantile spacciata per santino dello scienziato che nei vari festival vende il proprio prodotto alla pubblica opinione. E il ruolo di quest’ultima nella fabbricazione del consenso (e dunque accesso ai finanziamenti e creazione di opinion leader) non va sottovalutato. Di fatto l’opinione pubblica – anche nella sua forma meno politicizzata e passivamente mediatica di oggi – costituisce il quarto interlocutore, da aggiungersi al terzo, quell’uditorio scientifico che Marcello Pera individuava come un sistema il cui orientamento è in uguale misura determinato dai risultati e da raffinate tecniche di seeding e persuasione secondo strategie retoriche nel senso di Perelman (Pera, 1991). Esiste quindi un circolo – né particolarmente virtuoso, ma neppure occultamente vizioso – in cui una pluralità di gruppi di ricerca producono scienza che cerca poi di affermarsi come dominante nella comunità scientifica, utilizzando anche la colonizzazione di un consenso più ampio (Modonesi et al., 2008). Si noti che il circolo è saldamente oscillatorio. Infatti quando sorgono questioni di interesse pubblico rilevante, i politici non possono far altro che rivolgersi agli “esperti”, i quali a loro volta sono rappresentanti di un orientamento o di altri “concorrenti”. La “vittima” qui è la pluralità della scienza, con un restringimento “cognitivo” su idee, fini, bisogni e possibilità. Più che al nobile Faust di Goethe o al titanico Achab di Melville, tirati troppo spesso in ballo, è piuttosto al Faust originale di Marlowe che bisogna rivolgersi per abbozzare un ritratto dello scienziato contemporaneo («Quanto sono sazio di questa vanità?»), se non al goffo cialtrone arrogante del film di Sokurov (2011).
Queste poche righe sono sufficienti per comprendere che il problema dei rapporti tra scienza, cultura e società è talmente vasto da non potersi assolutamente esaurire in un piccolo articolo. La stessa suddivisione “scienza-cultura-società” appare artificiosa, tale è l’interconnessione tra l’attività scientifica e il suo humus. Le rapide note che seguono sono basate sulle mie esperienze come fisico “generazionalmente denotato”, il cui percorso va dagli anni di piombo e l’affermazione della teoria di Glashow-Weinberg-Salam fino a Higgs, l’informazione quantistica e le nuove minacce terroristiche globali, da Allonsanfàn dei Taviani fino a Pulp Fiction di Tarantino e The Social Network di Fincher. Sono dunqueda considerarsi asistematiche e senza alcuna presunzione di completezza.
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