Un mondo disincantato?
Tra laicismo e riflusso clericale
a cura di Davide Frontini
Papa Ratzinger e il nuovo clericalismo, la new age e i Talebani: siamo davvero di fronte a un ritorno del religioso? Dall'autore de Il disincanto del mondo una riflessione puntuale e un'analisi rigorosa per liberarci dalle false apparenze e cominciare a pensare la religione nella democrazia.
- Collana: Libelli vecchi e nuovi
- ISBN: 9788822055057
- Anno: 2008
- Mese: febbraio
- Formato: 12,5 x 21 cm
- Pagine: 248
- Tag: Politica Filosofia Filosofia politica Religione Laicismo
Il libro raccoglie una serie di saggi e interviste nelle quali Gauchet torna sulla tesi centrale de Il disincanto del mondo a vent'anni dalla sua pubblicazione. Tra i temi trattati, l'idea della modernità come processo di «uscita dalla religione» e l'interpretazione della crisi della democrazia contemporanea come il risvolto negativo del regime dell'integrale autonomia. Nella prima parte, si mostra la validità e la pertinenza storica e filosofica delle tesi sostenute ne Il disincanto del mondo confutando l'ipotesi diffusa che vede in fenomeni quali l'emergere dei più diversi fondamentalismi religiosi, o nell'affiorare di nuove forme di spiritualità, il segno di un ritorno del religioso. Nella seconda parte, si mostra l'altro aspetto del problema: cosa ne è di una politica ricondotta all'integrale auto-definizione del suo contenuto e dei suoi fini? E della religione cui è sottratta qualsiasi presa sul sociale? L'ipotesi gauchetiana offre un punto di vista originale e una lucida analisi delle attuali contraddizioni.
Introduzione - Dalla storia politica alla storia antropologica della religione - I. Uscita, ritorno e trasformazioni del religioso - 1. Ciò che abbiamo perduto con la religione - 2. Dalla teocrazia alla democrazia - 3. Riforma e Modernità - 4. La dinamica moderna - 5. Ritorno del religioso? - 6. Incertezze cattoliche - 7. L'aldilà oggi - 8. Il significato storico dei fondamentalismi - II. Le religioni nella democrazia - 9. Religione, etica e democrazia - Il completamento della transizione moderna - Una metamorfosi del pensabile - I due registri dell'etica - 10. Neutralità, pluralismo, identità - L'individualizzazione del senso - Riconoscimento e aspettative - 11. Religione civile, fede comune e morale civica - 12. Sull'insegnamento cattolico: attualità di una tradizione - Equità, efficacia - Cattolicesimo e modernità - L'umanesimo, la natura e la cultura - 13. Sull'avvenire del cristianesimo - La domanda spirituale - La sfida teologica -14. Quale ruolo per le istituzioni religiose in società uscite dalla religione? - Il privato e il pubblico - Una rilegittimazione paradossale - La neutralità liberale e il posto dei fini - L'identità storica e la sua trasmissione - L'umanesimo da ripensare - Postfazione di Davide Frontini
Introduzione
Dalla storia politica alla storia antropologica della religione
Mi sembra inutile costringere il lettore a leggere in questa introduzione una versione supplementare delle tesi che le pagine a seguire difendono, illustrano e specificano nei loro aspetti più diversi1. Al contrario, non mi sembra privo di interesse tornare sull'evoluzione subita in questi ultimi vent'anni dal contesto che ha fornito loro lo sfondo. La caratteristica principale di questa evoluzione è la costante crescita dello spazio del religioso nella nostra attualità. Dietro questa crescita sono all'opera tre fenomeni già presenti nel 1985: l'espansione fondamentalista, la specificità americana, l'eccezione europea. Qualsiasi riflessione sul religioso non può che rientrare, oggi, all'interno di questo triangolo problematico.
Anche se la rivoluzione iraniana è rimasta un caso isolato, la pressione fondamentalista si è confermata soprattutto nel mondo musulmano. Il terrorismo contribuisce a elevarla al rango di vera e propria minaccia, tanto che c'è chi non esita a parlare dell'islam come del «totalitarismo del XX secolo». L'attivismo fondamentalista, tuttavia, non è limitato al mondo islamico, tanto che, per esempio, le sue espressioni ebraiche o induiste occupano ormai regolarmente la cronaca.
Gli attentati dell'11 settembre 2001 hanno fatto riemergere un'America messianica, animata dalla fede nel suo manifest destiny e dal suo spirito da crociata, tanto che per qualcuno è addirittura il caso di parlare di una vera e propria «teocrazia».
Nella stessa Europa, anche indipendentemente dagli effetti di ciò che succede fuori dai suoi confini, e a prescindere dal fatto che questi avvenimenti trovino un'importante eco grazie alle numerose comunità musulmane che vivono sul suo territorio, la dimensione religiosa e le preoccupazioni spirituali hanno acquistato sempre più spazio e legittimità nella sfera pubblica. Rispetto al resto del mondo, tuttavia, questo avviene in contemporanea a un indebolimento spettacolare del peso delle Chiese e del loro magistero, una diserzione di così vasta portata da legittimare l'impressione di una «eccezione europea»2.
Proprio a partire da questi ultimi elementi, ci si può però legittimamente chiedere se il contrasto tra la marginalizzazione degli istituti ecclesiali e la ripresa del religioso dal punto di vista degli interessi pubblici, non sia da comprendere come una contraddizione che anticipa un imminente ribaltamento; se non sia il caso di considerarla come l'opposizione tra la velocità acquisita da una tendenza che viene dal lontano passato e la forza della novità di una tendenza che si proietta nel futuro – tanto più che alcuni indicatori segnalano una ripresa di religiosità tra i giovani3. In definitiva, possiamo chiederci se l'eccezionalità europea non sia ormai giunta al termine, se non sia destinata a rientrare nell'ordine assecondando la ripresa di quei fervori religiosi la cui attivazione si manifesta a tutte le latitudini. Persone di assoluto valore, basandosi su questa serie di motivi concordanti, pensano che sia giusto concludere in questo senso. Al contrario, io penso sia necessario resistere a questa tentazione non facendosi ingannare dalle apparenze: tra questi differenti fenomeni non c'è niente che indichi un ritorno del religioso nel senso più rigoroso del termine.
Le reazioni fondamentaliste sono una risposta alla dislocazione della società religiosa prodotta dalla penetrazione della modernità, reazione che, nello sforzo di ricostruire una forma religiosa, inglobano loro malgrado i princìpi e i valori contro i quali si mobilitano. Distruggono la tradizione alla quale si richiamano e modernizzano senza accorgersene. La rivoluzione iraniana non ha riportato la società islamica al suo antico splendore, al contrario si è resa responsabile di un'accelerazione nel processo di privatizzazione della fede, ha contribuito a screditare profondamente l'idea di un potere politico della religione. A questo va aggiunto che anche la più brutale tra le tirannie clericali non può essere confusa col totalitarismo – le mancano sia una teoria della società e del suo movimento, sia un partito come indispensabile strumento politico, elementi irrinunciabili per il progetto di una rifondazione totale dell'esistenza collettiva. A dispetto delle sue ambizioni globalizzanti, il discorso religioso non è all'altezza del compito: l'ambizione totalitaria si scontra inevitabilmente contro il blocco costituito dall'invocazione della trascendenza (poiché stiamo parlando dell'islam, va anche aggiunto come elemento accessorio che l'islam sunnita non ha a disposizione un clero che consenta la costruzione di un regime religioso così com'è accaduto nell'Iran sciita).
Gli Stati Uniti offrono l'esempio unico della coesistenza tra un popolo religioso e una società secolarizzata – una società che, sotto molti aspetti, è caratterizzata da un materialismo che ha pochi equivalenti. Alla base di questa combinazione tra ateismo sociale e fede individuale, ci sono circostanze storiche eccezionali che, proprio per questo, sono destinate a rimanere uniche. È vero, uno degli aspetti più evidenti del trauma seguito agli attentati dell'11 settembre, è stata la forte mobilitazione di una religiosità civile. Questo però non modifica gli equilibri profondi e non porterà a una riorganizzazione religiosa della vita collettiva.
Quanto all'Europa, il riemergere della preoccupazione religiosa va messa in relazione con la crisi che colpisce l'appartenenza e la pratica. Rappresenta il contraccolpo paradossale dell'approfondirsi del processo di «secolarizzazione» – un processo che, inaspettatamente, alimenta il bisogno di un riferimento spirituale sia nella gestione della vita pubblica, sia a livello individuale. Il fenomeno è perfettamente coerente con l'approfondirsi dell'eccezione europea, che è così fortemente radicata in virtù del fatto che a definirla sono le stesse condizioni che hanno reso possibile l'emergere della modernità europea – in particolare gli strumenti politici, sociali e intellettuali inerenti alla pratica dell'autonomia. Su questo terreno vengono meno tutte le similitudini col caso americano.
Il processo di uscita dalla religione, quindi, non fa che proseguire. Come nel passato, questo può comportare una riattivazione del religioso o il suo utilizzo in forme nuove. Per questo è necessario fare molta attenzione e non considerare questi fenomeni come il segno del ritorno a un'organizzazione religiosa del mondo.
A questo proposito vorrei precisare che questa constatazione oggettiva non esclude affatto la possibilità teorica di un autentico ritorno del religioso – nessuna necessità storica permette di escluderlo restando una possibilità permanente. In questo caso, però, sarebbe necessario prendere coscienza dello choc rappresentato da una rottura nel processo di sviluppo ormai millenario che l'Europa ha lasciato dietro di sé. Il futuro resta aperto e la sola cosa che possiamo affermare è che tutti i fenomeni considerati fin qui non hanno assolutamente niente a che fare con l'eventualità di una tale ricostruzione eteronoma – di più: testimoniando, come molti altri prima di essi, di una profonda continuità storica con il lungo processo di costruzione autonoma, ne rappresentano l'antitesi perfetta. Detto questo, va sottolineato, ancora una volta, come il fatto che questo processo duri da così tanto tempo non significa che debba necessariamente durare per sempre.
Con queste annotazioni volutamente sommarie volevo solo indicare la direzione e il contesto a partire dai quali sono state condotte le diverse analisi qui raccolte. C'è un punto sul quale le pagine che seguono torneranno spesso e sul quale tuttavia vorrei dire qualcosa di più. Mi riferisco alla riabilitazione pubblica del religioso. In Europa questa riabilitazione si accompagna a una parallela e profonda crisi sociale della religione. Il fenomeno risulta centrale a più livelli: per la capacità di mettere in crisi i vecchi schemi intellettuali; perché rappresenta un fenomeno capace di modellare per molto tempo il nostro orizzonte culturale e, infine, perché straordinariamente utile per comprendere il religioso, sia in generale, sia nella nostra specifica congiuntura storica. Per tutti questi motivi, oltre all'analisi delle sue molteplici e sottili conseguenze, il fenomeno merita di essere analizzato, anche se brevemente, da un punto di vista più generale.
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Le ragioni che spiegano questa rinnovata legittimità della religione in società che non sono mai state così lontane dall'antica forma religiosa, sono essenzialmente tre: una ragione storica, una ragione politica e una ragione antropologica.
1) A prescindere da una qualsiasi adesione personale, o dall'esistenza di una qualsiasi autorità collettiva, nelle nostre società il religioso tende a imporsi alla coscienza degli attori in quanto dimensione costitutiva della loro identità storica. Esprime il profondo cambiamento intervenuto nella modalità di definizione di questa identità: ci si definiva storicamente a partire da un orizzonte stabilito, in relazione al movimento che ci guidava; ci definiamo oggi a partire da ciò che siamo stati. La coscienza che le nostre società avevano di loro stesse era fondamentalmente progressista – la comprensione di ciò che sarà, l'interpretazione del passato, erano sospesi a una dinamica futurista per la quale siamo ciò che diventeremo. Dal punto di vista dell'idea di sé, il senso era dato dal germe di futuro contenuto nel presente – il quale, peraltro, forniva senso anche alla scienza, alla tecnica e all'economia, considerati come altrettanti strumenti per produrlo, e alla politica, la cui azione garantiva la sua effettiva realizzazione. Il passato era interpretato alla luce di questa tensione. La «crisi del futuro»4 cominciata negli anni '70 (crisi, in particolare, della sua prevedibilità, scomparsa delle forme che garantivano la possibilità di controllarne la genesi, la conservazione, il progresso e la rivoluzione) non poteva che rappresentare una profonda rottura rispetto a tutto ciò. I suoi effetti sono ancora oggi percepibili e, del resto, siamo ancora lontani dall'aver misurato tutte le conseguenze. Quella che sta per emergere è un'idea completamente nuova della nostra storia.
Insieme al venir meno della possibilità di prevedere il futuro, si è completamente trasformata la comprensione stessa del divenire storico. La coscienza di sé delle nostre società è divenuta fondamentalmente patrimoniale; l'idea di ciò che siamo non ha più nulla a che fare con l'idea di ciò che possiamo diventare – siamo ciò che siamo stati. Questo ritorno al passato cambia l'immagine del passato stesso: in origine non eravamo né contadini (o operai) né borghesi, non eravamo né conservatori né rivoluzionari, in origine eravamo innanzi tutto degli esseri religiosi. Rispetto a ciò che sentiamo di essere nel profondo di noi stessi, c'è qualcosa di più determinante della struttura feu-dale o capitalistica; nel patrimonio che ci definisce c'è un elemento che pesa di più ed è più significativo: la religione. Lo choc del confronto con altre culture e civiltà finisce quindi per fornire una conferma esterna di ciò che intima-mente percepiamo come la necessaria presa in conto della nostra specifica condizione nel tempo.
Questa rivalutazione spiega, per esempio, il largo consenso con il quale è stata accolta l'idea di introdurre l'insegnamento del fatto religioso – che cultura sarebbe quella impermeabile all'eredità delle grandi tradizioni spirituali? Ciascuno di noi, indipendentemente dalle sue specifiche convinzioni, la giudicherebbe inadeguata. Questa stessa rivalutazione fa poi da sfondo alle polemiche confuse cui ha dato luogo l'elaborazione della costituzione europea – che idea di Europa è quella che non riconosce il giusto posto al suo passato cristiano? Il fatto è che porsi la domanda significa già darsi una risposta. Come recitava una celebre formula rivoluzionaria, di sicuro «il passato non è il nostro codice», e il riconoscimento di un debito non detta alcuna legge. Resta, però, la condizione per sapere chi siamo – siamo fatti di quello di cui ci siamo liberati e lo restiamo anche continuando a liberarcene. È per questi motivi che il riaffacciarsi del parametro religioso, nella sua dimensione identitaria, ha davanti a sé un promettente avvenire.
2) Dal canto suo, e per motivi che le sono propri, l'evoluzione democratica, proprio mentre riconsegna alle religioni un ruolo importante a livello dei singoli cittadini, tende, in parallelo, ad attribuire loro una funzione quasi pubblica. La cosa è tanto più sorprendente se si considera che questa stessa evoluzione alimenta una crescente neutralità del potere pubblico dai punti di vista filosofico, morale e spirituale. Ciò che per tutti è assolutamente evidente, infatti, è non solo che nessuna religione beneficia di una posizione ufficiale, ma che nessuna concezione particolare del bene pubblico sia legittimata a prevalere – legit-time sono solo quelle che gli individui scelgono e perseguono liberamente. Assistiamo, in questo senso, al trionfo del principio di separazione latu sensu, un principio sul quale si fonda il diritto pubblico in democrazie autenticamente pluraliste – la missione dello Stato è quella di porsi come arbitro imparziale incaricato di vigilare sulla coesistenza pacifica e la libera espressione delle diverse famiglie di pensiero o convinzioni religiose.
Eppure, proprio mentre si assiste alla consacrazione di una democrazia puramente procedurale, nella quale regna una radicale individualizzazione del senso e dei fini, la prospettiva si rovescia. È vero, chi governa lo fa cercando di impedire che una dottrina prenda il sopravvento, si sforza di preservare l'apertura a un dibattito pubblico nel quale l'interesse generale è il risultato del confronto e l'aggregazione di interessi personali, nel quale qualcosa come una «visione pubblica» emerge grazie alla sintesi e al compromesso tra visioni private. Verissimo. Resta, tuttavia, che il luogo del potere è anche il punto di applicazione di una dottrina collettiva, una dottrina che non appartiene a nessuno in particolare – è il prodotto di un complicato compromesso tra dottrine individuali – ma che, non per questo, è priva di una sua coerente consistenza: attraverso l'esercizio dell'azione pubblica, infatti, prende inevitabilmente corpo una specifica definizione del bene e dei fini. Trattandosi poi di un potere esercitato in nome della collettività, è indispensabile che le fonti di questa specifica definizione vengano esplicitamente riconosciute nella sfera pubblica. Questo avverrà in modo necessariamente ufficioso e pluralistico, col risultato che graverà poi su chi governa il compito di trovare il delicato equilibrio tra la dissociazione ufficiale e l'associazione ufficiosa, tra la rigorosa separazione delle sfere e la loro rispettosa presa in carico.
I cittadini vogliono decidere da soli e senza che nulla venga loro imposto, in un contesto nel quale il pluralismo delle dottrine e degli orientamenti è un dato di fatto – non solo nello spazio pubblico, ma anche nella testa stessa e nel dialogo intimo di ciascuno. È vero. Ma è altrettanto vero che gli stessi cittadini hanno comunque bisogno di costruirsi un loro giudizio e che, per farlo, non possono che contare sulla visibilità di discorsi in grado di influenzare la deliberazione collettiva. Ecco perché si rivolgono, senza necessariamente privilegiarlo, ma nemmeno rifiutarlo, al discorso religioso.
La separazione definitiva tra le Chiese e lo Stato finisce così per riportare nell'orbita dello Stato delle Chiese considerate più come sistemi di senso e visioni particolari del destino umano che chiese in quanto tali. Una democrazia che ha raggiunto una neutralità completa è una democrazia che ha bisogno di una sfera pubblica abitata da dottrine capaci di fornire ciò che essa non è in grado di fornire. Nel contesto più generale di una politica incapace di produrre quel tipo di dottrine, il religioso ritrova, se non l'autorità esclusiva di una volta, almeno un posto e una dignità di tutto rispetto.
3) L'intimità individuale è l'ultima delle fonti di questa riattivazione di interesse per il religioso. La dimensione raggiunta oggi dal processo di individualizzazione fa emergere nell'individuo una spontanea predisposizione spirituale. Non lo rende per questo religioso, solo più aperto e più curioso nei confronti delle religioni – grazie a loro potrò forse comprendere meglio me stesso? In un individuo alle prese con il proprio edonismo e la ricerca della realizzazione personale, emerge una sensibilità nuova nei confronti del mistero di sé, dell'altro e del mondo. È questa sensibilità che può spingerlo a guardare con simpatia al messaggio religioso.
Per comprendere meglio questa congiuntura intellettuale e morale è necessario, per prima cosa, tenere nella giusta considerazione il riflusso delle grandi speranze che avevano caratterizzato il XIX e il XX secolo. Non ci sarà alcuna fine della storia e l'umanità continuerà a restare avvolta nel mistero. Nell'impossibilità di una riconciliazione della società con se stessa e, di conseguenza, tra l'individualità e la società, siamo condannati a cercare da soli la nostra via – il mistero che avvolge la condizione collettiva è destinato a perdurare. Al crollo delle escatologie terrestri e, più in generale, delle teorie della storia nel segno della fine, si aggiunge la crisi della scienza con la esse maiuscola. Una crisi che viene da lontano e dura ormai da un secolo, ma che ora esce allo scoperto, abbandona la ristretta cerchia degli iniziati, diviene fenomeno di massa e comincia a produrre tutti i suoi effetti. Emergono chiaramente i limiti della spiegazione scientifica – una spiegazione dalla quale, ormai è chiaro a tutti, non possiamo aspettarci una comprensione delle cose alternativa a quella religiosa. All'assestarsi dell'idea secondo la quale la scienza non può porsi come sostituto positivo al sapere metafisico, si aggiunge la scoperta dell'origine misteriosa del progresso scientifico. Un disincanto che finisce per avere conseguenze filosofiche evidenti e che colpisce, per esempio, il riduzionismo – il quale, pur non avendo necessariamente un'origine scientifica, della scienza adottava però il modello. La vita, la libido e i rapporti di produzione, con tutte le astuzie e le mistificazioni con le quali si presentano, hanno perso ogni potere esplicativo. Al centro della scena torna il mistero delle trascendenze oggettive che organizzano l'esperienza umana – che si tratti dello statuto delle idealità o dell'irriducibile dipendenza del nostro ego da un alter ego.
Detto questo, la trasformazione del paesaggio intellettuale rappresenta solo uno sfondo propizio alla trasformazione. Dal nostro punto di vista il nucleo attivo sta nell'esperienza di sé prodotta dalla progressiva separazione tra gli individui e dalla responsabilizzazione che questa separazione produce. È assolutamente fuori discussione l'idea di poter vivere come gli altri o per gli altri – l'oblìo di sé garantito dal conformismo o dal sacrificio non è più semplicemente possibile e, se è ancora pensabile, lo è solo come risultato di una scelta perfettamente consapevole. Non occuparci di noi stessi, sottrarci al problema di chi siamo: ecco quello non riusciamo in alcun modo a fare. In considerazione dello stadio raggiunto dal processo di individualizzazione, questo genera una forte inquietudine spirituale – una spiritualità che non si presenta come tale, che è spesso inconsapevole ma non per questo meno riconoscibile, specie grazie agli elementi che spontaneamente mobilita. Niente di più eloquente, a questo proposito, della passione con la quale milioni di lettori in tutto il mondo si sono riconosciti ne L'alchimista di Paulo Coelho – riorchestrazione discreta del tema romantico di una possibile sintesi tra il destino umano e l'anima del mondo (un tema che, durante la prima ondata individualista, riciclava a sua volta materiali provenienti dalla notte dei tempi). Dovendoci confrontare con la scelta di sé in vista della realizzazione personale, la tentazione naturale non è di concentrarci sul prosaico esercizio della nostra libertà, ma quella di interpretare il mistero che rappresentiamo per noi stessi – sarebbe davvero il caso di approntare una fenomenologia dell'individualità contemporanea in grado di far emergere attraverso quali molteplici linee di forza l'esperienza intima è ricondotta al commercio con l'invisibile.
Dell'individuo contemporaneo potremmo dire che è individualista nei suoi comportamenti e spiritualista nel suo pensiero. È straordinariamente preoccupato del suo corpo e della sua salute, per esempio, ma questa preoccupazione finisce per proiettarlo al di là dei propri limiti assecondando le forze profonde delle quali si sente partecipe e spingendolo alla ricerca di un'armonia con l'universo. La tematica New Age e la curiosità per le cosmobiologie orientali trovano qui la loro radice, in questa disposizione che costituisce anche l'ingranaggio fondamentale della rivalutazione del posto attribuito all'affettività – un'affettività considerata come un vero e proprio strumento di conoscenza. Anche l'amore più profano acquista accenti mistici, nuovi equilibri assicurano un nuovo rapporto con l'altro. Il vecchio linguaggio della morale del dovere non dice più nulla. Al suo posto, nutrito dal sentimento di una profonda solidarietà tra gli esseri, il trionfo della compassione e un'identificazione emozionale con le vittime attribuiscono nuovo vigore all'idea di impegno incondizionato. Sulla stessa scia si potrebbe parlare del modo in cui gli individui siano indotti, dalla loro stessa emancipazione, a imporsi una regola di vita capace di infondere alla loro esistenza quella coerenza superiore che da sola non riesce a produrre. Sono questi i luoghi nei quali si riaccende, per motivi che attengono all'avanzare stesso della modernità, l'interesse per la faccia nascosta delle cose, per l'aldilà del visibile. Questo interesse può rimanere implicito, muto, ma quando si esprime lo fa grazie al linguaggio delle tradizioni religiose – un utilizzo, sia chiaro, caratterizzato dalla più ampia libertà sincretica.
Un posto a parte occupa la riviviscenza di quella che potremmo definire come religiosità contestataria – una forma di religiosità destinata, forse, ad acquistare una significativa importanza ponendosi come contrappunto alla cultura del benessere, del consumo e del divertimento che la forza dei media ha ormai trasformato in un'insopportabile cappa di piombo. Una devastante egemonia che rigetta parte dell'esistenza, la parte in ombra, la parte dolorosa o tragica. Peggio, regnando nell'assoluta unanimità, getta in una solitudine senza fine quelli che non ce la fanno o ai quali, semplicemente, la vita ha prematuramente presentato il conto. Da questo punto di vista l'eredità delle religioni si presenta come il punto d'appoggio per una critica di genere nuovo, la critica a una società dello spettacolo organizzata intorno al misconoscimento della condizione umana. Per ora è una critica che funziona bene a livello individuale, ma non è escluso che possa assumere i contorni di una tendenza collettiva. La critica rivoluzionaria alla società borghese e al suo idealismo menzognero si è affermata sotto le insegne del materialismo. Chissà, magari potrebbe succedere che nel futuro la sua radicale rimessa in discussione avvenga all'insegna dello spirituale.
A un livello più profondo bisognerebbe mostrare come la riattivazione del senso religioso nella dimensione più intima e segreta dell'esperienza individuale, non faccia che svelare il fondamento antropologico del religioso. La presa delle religioni istituzionali si allenta progressivamente. La funzione di integrazione sociale svolta durante i millenni, anche. In questa dissoluzione si coglie l'eccezione europea. Le religioni non raccolgono più, non tengono più insieme secondo un'etimologia instancabilmente invocata per giustificarle (etimologia falsa, del resto). Non sono più esse a garantire il legame, ci sono altre istituzioni che se ne occupano. L'apertura dell'uomo alla religione, invece, quella resta ed è destinata a restare, sopravvivendo alle sue realizzazioni sociali e storiche. Si è solo messa a funzionare da sola, per conto suo. Non stiamo parlando qui dell'esistenza di un primordiale homo religiosus, ma di un fascio di condizioni e di disposizioni che l'hanno reso possibile (l'homo religiosus è, in realtà, un creatura storica). Una volta liberatosi delle costruzioni cui faceva da supporto, non è detto che questo nucleo antropologico debba esprimere le sue potenzialità nel registro esplicitamente religioso. Può trovare altre manifestazioni che – anche se apparentate a ciò che si configura va come tipica esperienza religiosa nel radicarsi all'incrocio tra l'invisibile, il corpo e la verità – restino, rispetto al loro contenuto, interamente indipendenti dalle religioni. Nella configurazione attuale, per esempio, è assolutamente evidente come questo nucleo alimenti molte esperienze religiose, se non mistiche – esperienze che, è vero, non si percepiscono come tali e che, del resto, sono destinate a ignorare sempre di più il loro contenuto più profondo. In un mondo nel quale la memoria del fatto religioso è massicciamente iscritta nel paesaggio sociale, e ravvivata dalla ricerca di un'identità storica, lo stesso nucleo alimenta poi, in un numero altrettanto significativo di attori, la volontà di dotarsi di una versione coerente degli elementi che definiscono la loro esperienza intima proprio a partire da questa eredità. Per finire, produce in altri una vera e propria convinzione religiosa che, rispetto a quella dei credenti di una volta, presenta però una doppia originalità: da un lato, è una convinzione liberata da qualsiasi legame con la strutturazione dell'essere collettivo (elemento caratteristico della fede passata); dall'altro, è una coscienza attraversata dalla consapevolezza più o meno chiara del suo ancoraggio soggettivo, delle sue radici antropologiche – della sua natura umana, troppo umana. Una religione divenuta puramente individuale (fenomeno storico di straordinaria portata) ma contemporaneamente religione irrimediabilmente abitata da una coscienza autocritica (altra dimensione i cui effetti sono difficilmente prevedibili). È in queste diverse direzioni che continuerà a diffondersi l'eredità di un'età religiosa.
Se il regno delle religioni è alle nostre spalle questo non significa che le religioni siano sparite dal nostro orizzonte. Al culmine della modernità possiamo dire che sia finita la storia politica della religione; la sua storia antropologica, al contrario, ha ancora molte cose da dirci.
1. Rimando il lettore interessato agli scambi avuti con Pierre Manent, «Esprit», aprile-maggio 1986; E. TERRAY, «Le genre humain», n. 23, printemps 1991; la risposta di Gauchet è ora contenuta ne La condition politique, Gallimard, Paris 2005; R. DEBRAY, «Le Débat», n. 127, 2003 [tradotto da Micromega, n. 2, 2004]; L. FERRY e M. GAUCHET, Le religieux après la religion, Grasset, Paris 2004; trad. it., Il religioso dopo la religione, Ipermedium, Napoli 2005.
2. G. DAVIE, Europe, The Exceptional Case. Parameters of Faith in the Modern World, Darton, Longman and Todd, London 2002.
3. Y. LAMBERT, Des changements dans l'évolution religieuse de l'Europe et de la Russie, «Revue française de sociologie», n. 2, 2004.
4. K. POMIAN, La crise de l'avenir [1980], in Sur l'histoire, Gallimard, Paris 1999; trad. it., Che cos'è la storia, Bruno Mondadori, Milano 2001.