Il sociologo e lo storico
Dialogo sull'uomo e la società
prefazione di Mirella Giannini
Un sociologo e uno storico di primo piano si interrogano e si confrontano sulle rispettive discipline, mettendo in luce analogie e contraddizioni, nel più ampio quadro dei rapporti tra scienze umane e mondo moderno, tra libertà individuale e meccanismi sociali.
- Collana: Nuova Biblioteca Dedalo
- ISBN: 9788822063151
- Anno: 2011
- Mese: giugno
- Formato: 14 x 21 cm
- Pagine: 112
- Tag: Storia Società Sociologia
Pierre Bourdieu incontra lo storico Roger Chartier e insieme danno luogo a un serrato e appassionante dibattito su questioni di notevole rilievo e di grande attualità. Il libro ripropone cinque conversazioni radiofoniche andate in onda nel 1988, nel corso delle quali, con l’immediatezza e la schiettezza che solo il dialogo può offrire, la sociologia e la storia si confrontano a tutto campo, evidenziando punti di contatto e divergenze insanabili, ma soprattutto due differenti prospettive da cui osservare e studiare l’uomo e la società del nostro tempo. Chartier incalza Bourdieu sui temi portanti della sua riflessione teorica, dandogli l’opportunità di esprimersi, con agguerrita e sofferta lucidità, sui nodi più controversi e più scottanti della sua opera. Un dialogo che investe le basi stesse del fare sociologia e del fare storia, interrogandosi sulla validità dei loro metodi, sulle condizioni nelle quali operano, sul loro ruolo nella società. Un libro prezioso, un brillante e costruttivo scambio intellettuale, un’occasione per riflettere a fondo sul mondo nel quale viviamo.
Prefazione di Mirella Giannini - Introduzione - A voce nuda - 1. Il mestiere di sociologo - 2. Illusioni e conoscenza - 3. Strutture e individuo - 4. Habitus e campo - 5. Manet, Flaubert e Michelet
Capitolo primo
Il mestiere di sociologo
ROGER CHARTIER: Non deve essere molto facile essere un sociologo, visto che, quando si guarda alla maniera in cui il tuo lavoro è recepito, si resta colpiti dalle formidabili contraddizioni che ci si ritrova a scrivere o a pensare. Perché, insomma, delle due l’una: la sociologia è fatta per mobilitare le masse o invece per demoralizzare Billancourt? Come può, questa scrittura illeggibile, essere talmente complessa da risultare impenetrabile e al contempo veicolare un messaggio particolarmente chiaro e, per alcuni, radicalmente sovversivo? E la sociologia può pretendere – come talvolta si ha l’impressione che faccia – di essere una scienza dominante, un sapere dei saperi, laddove tu, attraverso tutto quello che scrivi, la decostruisci in quanto disciplina? È forse a partire da tutte queste contraddizioni che possiamo iniziare la prima delle nostre conversazioni, dato che in gioco c’è una serie di questioni fondamentali: che cos’è la sociologia? Che significa essere sociologo? Come pensare il rapporto della sociologia con altre discipline che, come la storia (che è la mia), si trovano a confrontarsi con tale mostro proteiforme e in qualche modo inquietante?
PIERRE BOURDIEU: Sì, credo anch’io che la sociologia dia fastidio, ma quella sorta di senso d’assedio che potrei provare in quanto sociologo viene, malgrado tutto, neutralizzato dalle contraddizioni insite negli attacchi subiti. Penso, in particolare, che le accuse di tipo politico rivolte alla sociologia abbiano almeno la virtù di essere contraddittorie, che così permettano di vivere. È comunque vero che la sociologia non sempre è facile da vivere.
ROGER CHARTIER: Già, perché si ha l’impressione che si tratti di una disciplina che, nel suo sforzo di riflessività sul mondo sociale, inscriva al contempo quello che la produce nel campo stesso che sta descrivendo. In tal senso essa non è facile da vivere, non solo perché fornisce degli altri un’immagine che questi spesso non sopportano, ma anche perché implica colui che la produce nell’analisi stessa.
PIERRE BOURDIEU: Sì, è una situazione di cui ho esperienza.
Quando, ad esempio, vado a parlare di sociologia a un pubblico di non sociologi, di non professionisti, sono sempre indeciso fra due strategie possibili. La prima consiste nel presentare la sociologia come una disciplina accademica, come se si trattasse della storia o della filosofia: in questo caso ottengo un’accoglienza interessata ma, appunto, accademica. Oppure cerco di esercitare l’effetto specifico della sociologia, nel senso che cerco di mettere i miei ascoltatori in una situazione di autoanalisi, sapendo così di espormi a divenire il capro espiatorio del mio uditorio. Ricordo, per esempio, l’esperienza vissuta due anni fa alla Filarmonica di Bruxelles, dove ero stato invitato da un responsabile di un’associazione, «Les Amis de la Philharmonique de Bruxelles», il quale, molto gentilmente ma con un pizzico di ingenuità, mi aveva chiesto di esprimere le mie visioni, le mie rappresentazioni dell’arte, della sociologia, della musica, ecc. Fino all’ultimo momento – lo ricordo molto bene –, nella vettura in partenza nella notte, gli dicevo: «Lei non si rende conto che mi invita a fare qualcosa di terribile, qualcosa che può sfociare nel drammatico; ci saranno incidenti e su di me pioveranno gli insulti». Egli pensava che fossi in preda al tipico panico del conferenziere. Poi, però, è accaduto quel che temevo: un vero e proprio happening; per otto giorni non si parlò d’altro negli ambienti intellettuali di Bruxelles.
Un mio amico ha sentito dire da uno dei partecipanti che, dall’epoca dei surrealisti, non aveva mai assistito a un dibattito tanto movimentato ed effervescente come in quell’occasione.
Ebbene, avevo parlato di cose insignificanti, servendomi di eufemismi e di formule neutralizzanti. Come precauzione avevo puntato lo sguardo, in mezzo al pubblico, su un’anziana signora, molto ben vestita e con la sua borsetta sulle ginocchia, un po’ come al Collège de France, stando attentissimo a non dire niente di offensivo e dunque eufemizzando al massimo.
Malgrado ciò io penso che la «verità» sociologica – e sì, metto verità fra virgolette – abbia una violenza tale da ferire; essa fa soffrire e, nello stesso tempo, le persone si liberano di questa sofferenza rispedendola su colui che ne è l’apparente causa.
12 luglio 2011 | La Sicilia |