Una nuova etica per l'ambiente
La crisi ambientale come occasione per reimpostare in modo corretto il rapporto tra uomo e natura, e riprogettare, in termini nuovi, il rapporto tra uomo e uomo e tra stato e stato: la liberazione dell'uomo e della natura da ogni forma di sfruttamento.
- Collana: Nuova Biblioteca Dedalo
- ISBN: 9788822062918
- Anno: 2006
- Mese: settembre
- Formato: 14 x 21 cm
- Pagine: 280
- Tag: Natura Etica Ecologia Ambiente
La crisi ambientale, pur nella sua estrema gravità, ci ha fatto prendere coscienza del comune destino di tutti gli esseri che vivono sul nostro pianeta, ricordandoci il rispetto che a ciascuno di essi è dovuto. In questo senso, essa può costituire un'occasione straordinaria, sia per reimpostare in modo corretto il rapporto tra uomo e natura - in particolare, attraverso il superamento della mentalità meccanicistica e dell'antropocentrismo sfrenato e del capitalismo eslege che hanno dominato in questi ultimi secoli - sia per riprogettare in termini nuovi il rapporto tra uomo e uomo e tra stato e stato. Il superamento della crisi ambientale implica infatti profonde trasformazioni a ogni livello: economico, politico, sociale, scientifico, tecnologico, culturale. Proprio per questi suoi tratti, l'ecologia rivela una valenza fortemente utopica, di progetto per una società più giusta e prospera. I saggi di questo volume propongono princìpi e norme etiche che, oltre a provocare un cambiamento nei comportamenti quotidiani di ciascuno di noi, implicano anche un mutamento della prassi sociale nella sua globalità.
Il rapporto uomo-natura come problema etico di Cosimo Quarta - I. L'AMBIENTE COME PROBLEMA ETICO - Perché un'etica dell'ambiente? di Carmelo Vigna - Per un umanesimo ecologico di Luisella Battaglia - L'ambiente come oggetto di riconoscimento di Mario Manfredi - Il problema dell'ambiente nel ventunesimo secolo di Vittorio Hösle - Principio di precauzione e filosofia pubblica dell'ambiente di Mariachiara Tallacchini - Antropocentrismo e biocentrismo. Ricerca di una integrazione dialettica di Piergiacomo Pagano e Maurizio Di Natale - La formazione della coscienza ecologica di Cosimo Quarta - II. PER UNA PRASSI ECOLOGICA - Mente, corpo, ambiente ed evoluzione: la visione olistica originaria di Teodoro Brescia - Ecofemminismo e natura di Maria Alberta Sarti - Dalla distopia ipertelica all'etica conviviale: verso nuovi fattori di ricchezza di Paolo Coluccia - Dalla teoria alla prassi: una testimonianza del Movimento ambientalista in Germania di Siegfried Müller - Indice dei nomi
Il rapporto uomo-natura come problema etico di Cosimo Quarta
1. La riflessione morale sul dissesto ambientale
La necessità di una riflessione morale sul rapporto uomo-natura è sorta nel momento in cui l'umanità ha preso coscienza dei gravissimi danni, talvolta irreversibili, che una prassi sconsiderata stava causando non solo alla specie homo, ma all'intera biosfera. Uno dei primi autori che ha sentito l'urgenza di una riflessione etica sull'ambiente è stato il naturalista statunitense Aldo Leopold, il quale, intorno alla metà del '900, esprimeva con forza l'esigenza di un'«etica della terra» (Land Ethic), ossia di una nuova concezione della moralità che includesse tra i doveri dell'uomo il rispetto non solo dei propri simili, ma anche delle altre specie viventi e dell'intero pianeta. Alle istanze di Leopold fecero seguito, di lì a poco (ossia nei primi anni Sessanta), le denunzie di alcuni autori, come, ad esempio, Rachel Carson – la quale, in un suo documentatissimo e pionieristico volume, mise a nudo i terribili guasti prodotti dall'uso irresponsabile dei pesticidi nelle campagne USA – o come Barry Commoner, che in un suo saggio chiamò direttamente in causa, per il dissesto ambientale, la responsabilità degli scienziati e dei tecnologi. Pur con queste ed altre circostanziate denunzie, il dibattito sull'ambiente non riuscì ad imporsi all'attenzione dell'opinione pubblica per tutti gli anni Sessanta. Fu solo con la pubblicazione, nel 1972, del famoso primo rapporto al Club di Roma, dal titolo I limiti dello sviluppo, che la discussione sui problemi ambientali attrasse l'attenzione non solo di studiosi di diverse discipline, ma anche del grande pubblico. Dal dibattito emerse con chiarezza che le cause del dissesto ambientale affondavano le loro radici nell'etica. Da questo momento in poi, la riflessione morale sull'ambiente prese il largo, grazie agli studi di autori come Passmore, Jonas, Apel e molti altri, che si sforzarono di individuare nuovi princìpi e norme per regolare i rapporti tra uomo e natura. Nella cultura occidentale, com'è noto, l'etica tradizionale ha assunto un carattere fondamentalmente antropocentrico, dal momento che ha rivolto la sua attenzione, in modo pressoché esclusivo, ai problemi concernenti i rapporti tra uomo e uomo. E ciò perché lo sfondo su cui l'etica tradizionale si è costituita è stata la polis, ossia la città, lo stato nelle sue diverse articolazioni. Basti pensare alla definizione aristotelica dell'uomo come zoon politikon, ossia come l'essere, il vivente che si caratterizza per la sua politicità, per la sua socialità, per il suo co-essere. Il problema del rapporto uomo-natura non veniva preso in considerazione, sotto il profilo etico, perché si dava per scontato che la natura – in quanto principio di vita e di movimento, in quanto sostrato, in quanto ambiente che da ogni parte e da sempre avvolge e ingloba l'uomo, di cui si configura, appunto, come l'originario ed ineludibile spazio d'esistenza – fosse stabile, inattaccabile, indistruttibile, capace, in ogni caso – in quanto cosmo, in quanto realtà bene ordinata e principio d'ordine – di rimarginare con prontezza le eventuali ferite che l'uomo poteva causarle, anche involontariamente, con la propria attività. E invero per secoli, anzi, per millenni, il rapporto uomo-natura non ha posto grossi problemi, perché l'agire umano, anche quando utilizzava strumenti (ciò che, del resto, l'umanità ha imparato a fare fin dai suoi primordi), intaccava solo marginalmente gli equilibri ecologici, data l'esigua potenza delle sue tecniche. Le cose cominciarono a cambiare con l'evo moderno, allorché la ragione umana si trasforma e si riduce a «ragione calcolante», prima con la scienza sperimentale (che cerca di conoscere la natura, attraverso il calcolo, applicando cioè alle scienze naturali il metodo matematico), poi con la presenza egemonica del capitale e, quindi, con la scienza economica moderna, la quale ragiona solo in termini di «profitti e perdite», di vantaggi e di svantaggi, dal momento che ha come criterio- guida solo l'utile. La scienza, con i suoi continui progressi, costituiva una ghiotta occasione per aumentare i profitti, che il capitale non si lasciò sfuggire, utilizzando su vasta scala le macchine e gli altri ritrovati della tecnica. Nacque così il fenomeno industria, che favorì e accelerò il processo di trasformazione – che era in corso ormai da qualche secolo – della scienza in tecnologia. Con tale trasformazione, la scienza non è più rivolta alla conoscenza pura, ma s'impegna a costruire nuovi strumenti di produzione o, comunque, a escogitare nuove tecniche; le quali, se da un lato contribuiscono ad accrescere il benessere dell'umanità, dall'altro vengono sovente utilizzate anche per massimizzare i profitti o per accrescere la potenza economica o militare degli stati. Oltre a ciò, la «ragione calcolante», utilizzando come criteri di giudizio l'efficienza, la produttività e il profitto, ha finito col generare quello che ora viene chiamato pensiero unico. Si tratta di quel pensiero, di quella mentalità, di quella Weltanschauung che ha ridotto l'agire umano ad un mero fare. Frequentemente, i termini «agire» e «fare» vengono usati come sinonimi, occorre rilevare invece che tra i due verbi vi sono differenze che non sono di poco conto. Il verbo «agire», infatti, etimologicamente significa «spingere in avanti» (in questo senso è l'opposto di ducere, «essere capo», «guidare») e designa «l'attività nel suo esercizio continuo». In altri termini, nell'agire, l'uomo esercita o può esercitare la sua libertà, nel senso che può agire in diversi modi. Al contrario, il verbo facere (fare), poiché esprime l'esecutività di un atto, implica l'idea di costrizione, di necessità, ossia di qualcosa che bisogna fare, eseguire. Dal verbo agire derivano infatti i termini azione e atto, in cui v'è dentro l'idea di qualcosa che è in via di svolgimento, mentre dal verbo fare deriva il termine fatto, ossia l'idea di qualcosa che è già compiuto e da cui non si può tornare indietro. La «ragione calcolante», attraverso la scienza-tecnologia, la scienza economica e il fenomeno industria, ha trasformato l'agire umano in fare. L'uomo dell'era tecnologica opera all'interno di apparati (uffici pubblici e privati, banche, industrie, negozi, ecc.), al cui interno egli è chiamato solo ad eseguire. E mentre, fino a pochi decenni fa, ad «eseguire» erano solo i lavoratori dipendenti (si pensi alla catena di montaggio in fabbrica), ora invece anche l'alta dirigenza sembra aver perduto la propria autonomia, la libertà di decidere. Non a caso, infatti, molti imprenditori o managers, in occasione, ad esempio, della chiusura o trasferimento di un'azienda, dichiarano, con estrema naturalezza, che a tale decisione sono pervenuti perché «costretti» dal mercato […].