Adele Plotkin
Un sottile margine blu
Il libro ripercorre le tappe fondamentali della ricerca di Adele Plotkin, dagli insospettabili esordi espressionisti degli anni ‘60, fino alle opere più recenti che hanno segnato il “margine” indelebile del suo pensiero.
- Collana: Fuori Collana
- ISBN: 9788822041753
- Anno: 2014
- Mese: gennaio
- Formato: 21,5 x 24 cm
- Pagine: 168
- Note: illustrato a colori
- Tag: Arte Arti Visive Adele Plotkin
Una lettura analitica delle opere dell’americana Adele Plotkin (1931 - 2013), in un contesto che vede indistinguibili il ruolo di artista e di docente, così come accadde per Josef Albers suo maestro a Yale, negli anni ‘50. Un’analisi sintattica delle singole opere nell’ottica della teoria gestaltica della percezione visiva. Adele Plotkin è nata a Newark, New Jersey (USA) il 20 Settembre 1931.
Dopo aver frequentato l’Accademia di Belle Arti ha continuato i suoi studi alla Yale University con la guida di Josef Albers. Dopo le lauree (Bachelor and Master of Fine Arts) ha vinto una borsa di studio Fulbright per la pittura ed è stata attiva a Venezia, dove ha conosciuto Tancredi, Vedova ed altri pittori veneziani. Con il rinnovo della borsa si è trasferita a Roma e Ischia, per poi stabilirsi a Bari, dove ha insegnato Psicologia della Forma presso l’Accademia di Belle Arti dal 1971 al 1996. Adele Plotkin è mancata il 2 Giugno 2013.
Chi è Adele Plotkin - Vecchi lavori (1963-1977) - Cerchi (1980) - Nuovi (1987-1991) - Disegni (1993-2001) - Ultimi (2011-2013) - Interventi
Chi è Adele Plotkin
Per comprendere gli esordi e il definitivo percorso di Adele Plotkin è necessario che il lettore possa anche comprendere cosa accadeva nella cultura artistica americana del secondo dopoguerra. È importante sapere che «dopo la Seconda guerra mondiale il centro della cultura artistica mondiale, e conseguentemente del mercato, si sposta da Parigi a New York: la fioritura esplosiva di un’arte americana costituisce il fenomeno più importante nella storia dell’arte della metà del secolo». Questo si spiega, almeno per quanto riguarda il nostro scopo, con la straordinaria e ricchissima presenza di personalità artistiche provenienti da tutta Europa: da Mies van der Rohe a Piet Mondrian, da Josef Albers a László Moholy-Nagy, da Mark Rothko a Louis Kahn. L’elenco potrebbe continuare, ma è importante sapere che questo coacervo di competenze ed eterogeneità di linguaggi artistici contribuì alla nascita di importanti scuole d’arte, di musei e di un coinvolgimento irresistibile da parte degli artisti americani, nei confronti dell’arte e del mito della vecchia Europa. Accadde tuttavia qualcosa che a prima vista può apparire paradossale: la percezione nei confronti dell’arte europea da parte degli stessi artisti europei, mutò improvvisamente; come se una stessa cosa spostata in un contesto spazio-temporale diverso, potesse trasformarsi improvvisamente in qualcos’altro. Ma, a ben riflettere, a cosa sarebbe ormai servita in un paese così diverso nella sua storia come gli Stati Uniti, l’intransigenza teoretica di Piet Mondrian, l’acre ironia di Marcel Duchamp o l’introspezione psicologica di Arshile Gorky?
Qualcosa è cambiato. Definitivamente. L’America diventa ormai il mito per l’Europa, laddove ai conflitti politico-ideologici e all’aspra polemica portata avanti dalle avanguardie artistiche del Novecento, si contrappone improvvisamente la visione di una nuova possibilità, quella offerta da un nuovo mondo progressista e tecnocrate. Sappiamo “tuttavia” che le cose non stanno proprio così, sappiamo che, come afferma lo stesso Argan, gli artisti europei scambiarono il benessere per democrazia e che ben presto «[…] i nuovi artisti si ribelleranno alla ricca borghesia industriale, che pure li avrebbe adottati senza badare a spese».
Fra le scuole di formazione artistica più accreditate negli anni cinquanta, la Yale University – School of Art: Graphic, Design. «La scuola era sotto la guida del grande Josef Albers, ed era proprio in quell’epoca che usciva un libro fondamentale, Arte e percezione visiva, di Rudolf Arnheim. Arnheim era uno dei primi studiosi, psicologo, che studiò e collegò fenomeni della percezione visiva con il mondo dell’arte, degli artisti. Quasi tutti gli studenti lo leggevano, lo discutevano, cercando di apprendere e digerire le informazioni lì contenute».
Con queste parole Adele Plotkin racconta il clima di euforia che accompagnava gli studenti, non solo americani, nel corso quadriennale che sarebbe culminato in un Bachelor of Fine Art.
Josef Albers, emigrato da Bottrop (in Germania) negli Stati Uniti nel 1933, fu invitato a guidare il Design Department, ruolo che mantenne dal 1950 al 1958. Il programma didattico prevedeva l’integrazione di diverse discipline all’interno dei corsi di progettazione, su modello del Bauhaus. In effetti Albers era stato in precedenza invitato a Yale nel 1948 come Visiting Critic. Fu esplicita volontà di Charles Sawyer, Preside della College of Fine Arts e direttore del nuovo Department of Design a Yale, affidare la direzione dei corsi, a dire il vero una scelta controversa, ad una personalità “straniera” seppur del calibro di Josef Albers, anche per rilanciare la scuola attraverso una rinnovata didattica. Didattica che Adele Plotkin fece propria applicandola, a sua volta, vent’anni dopo, quando le fu affidato il corso di Psicologia della Forma presso la neonata Accademia di Belle Arti di Bari. Il destino volle che questa scelta destasse le medesime perplessità rivolte nei confronti di una personalità “straniera”, quella per l’americana Adele Plotkin. Chi scrive, faceva parte di quell’ambiente, avrebbe più tardi scritto lei stessa nella prefazione ad un mio lavoro del 1997, adesso lo ripeto in quest’occasione come a voler continuare (così lei direbbe ancora) una storia che continua, a dispetto del tempo che trascorre interrompendone gli eventi.
Fin qui il lettore non avrà ancora ricevuto una risposta alla domanda di apertura. Risulta chiaro però il contesto particolarissimo in cui Adele Plotkin si è formata. Attraverso la lettura delle sue opere forse troveremo insieme risposte più esaustive.
La scelta di raggruppare le opere in cinque gruppi distinti (Vecchi lavori, Cerchi, Nuovi, Disegni, Ultimi) è sicuramente una scelta opinabile. La motivazione risiede soprattutto nella facilità, a mio parere, di poter classificare i lavori in base a distinti e precisi obiettivi progettuali. Le opere classificate come “vecchi lavori”, vale a dire le tele datate fra il 1962 e il 1971, come si vedrà più avanti, risentono dell’influenza di quegli autori presenti nella scena dell’arte americana nel secondo dopoguerra: in particolare Arshile Gorky (di questi amava particolarmente un’opera del 1944, The Liver is the Cock’s Comb. Adele Plotkin possedeva peraltro, una importante monogra- fia dell’artista in edizione americana del 1957, con un’introduzione di Meyer Schapiro) e Sebastián Matta. Malgrado il potente imprinting di ascendenza razionalista che Josef Albers aveva dato a Yale, non v’è traccia al momento di quanto appreso durante le lezioni con il maestro tedesco. La cosa che conta adesso è quella di condividere l’esperienza di questi autori attraverso i percorsi segnati dall’espressionismo astratto. Sono oramai trascorsi più di dieci anni da quando Adele Plotkin, conclusi gli studi alla Yale University all’età di ventiquattro anni, consegue una borsa di studio Fulbright per la pittura e si reca in Italia, a Venezia. Lì conosce Tancredi, Vedova e altri pittori veneziani. È un periodo fruttuoso di esperienze e, non certo casualmente, troverà in Emilio Vedova un potente punto di riscontro con il maestro armeno-americano Arshile Gorky.
Arshile Gorky, un proto-espressionista che, dopo l’arrivo in America dall’originaria Armenia, diventa uno dei padri riconosciuti della “Scuola di New York” interpretando in maniera interattiva il Surrealismo europeo, rappresentato da discepoli di Andrè Breton come Sebastián Matta (anch’egli giunto a New York con lo scoppio della Seconda guerra mondiale) e l’Espressionismo astratto americano di Willem De Kooning (già presente in America alla fine degli anni venti). L’accostamento di queste immagini può aiutare il lettore ad individuare stilemi comuni o, comunque, intenzioni espressive parallele fra alcune opere di Adele Plotkin e quelle di autori ai quali molto probabilmente ha fatto riferimento.
Il lettore deve sapere che negli stessi anni in America l’impegno degli artisti è orientato ad una denuncia nei confronti (come affermerà Argan) della “maschera della razionalità scientifica”, dietro la quale il Paese si trincera nascondendo a se stesso pesanti colpe. Artisti americani come Mark Rothko, insieme a Franz Kline, esprimeranno questo disagio attraverso una pittura in cui il segno, espressione di un gesto (a volte pacato come in Rothko, altre volte aggressivo come in Kline) continuerà il solco già tracciato negli anni cinquanta dall’altro americano Jackson Pollock, noto per la sua “pittura d’azione” o action painting. Artista tormentato, Gorky, che darà fine alla propria vita, così come fecero Mark Rothko e, per analoghe ragioni, l’attore James Dean.
Ma torniamo all’esperienza italiana dell’artista di Newark (Adele Plotkin era nata lì nel New Jersey, insieme alle sorelle Barbara e Frances).
In Emilio Vedova, troverà un riscontro di quella pittura, cosiddetta della “negazione”, che aveva visto protagonisti in America Kline, Rothko, ma anche Hartung e Soulages. Vedova è un artista politicamente impegnato, che fa della pittura un’arma per esprimere il disagio esistenziale dell’uomo. In modo diverso ma coerentemente, condividerà l’esperienza di quegli artisti oltre oceano.
Durante questi primi anni di soggiorno in Italia, a Venezia e successivamente a Roma per un rinnovo della borsa di studio, Adele Plotkin vive da vicino il rinnovato dibattito artistico europeo.
E proprio a Roma (per la prima volta in Italia), espone nel 1970 presso la galleria Schneider.
Forse adesso il lettore potrà comprendere il significato di quelle tele dipinte con tecnica ad olio in cui il surrealismo di Gorky si amalgama con una gestualità pacata, ben lontana dalla rabbia pittorica di Vedova o di Kline, per certi versi più vicina a quella di Robert Motherwell (ricordo la riproduzione di un dipinto dell’artista americano nel suo studio di Bari), certamente più incline alla ricerca di rapporti di configurazione.
Intanto Adele Plotkin è ad Ischia. Lì si definisce il legame con Carlo Ferdinando Russo, intellettuale di Lucca e figlio di Luigi Russo.
L’intesa è straordinaria, gli interessi culturali comuni. Si trasferiscono insieme a Bari e per lei inizia anche il lungo periodo di docenza (che durerà fino al 1996) presso l’Accademia di Belle Arti, inaugurando il corso di Psicologia della Forma. L’insegnamento di questa disciplina è di fondamentale importanza per gli sviluppi del linguaggio figurativo di Adele Plotkin. È anche fondamentale per capire le sue opere, via via più complesse (addirittura fuorvianti agli occhi di un osservatore improvvisato) e lontane dagli esordi giovanili. Il lettore si chiederà che cosa sia la Psicologia della Forma e, soprattutto, come mai l’artista americana potesse esserne coinvolta come docente. All’inizio sono state riportate le sue parole riguardo una significativa circostanza che caratterizzava le entusiasmanti lezioni a Yale. Quella in cui le lezioni di Josef Albers, in particolare il suo corso sul colore, si affiancavano allo studio di un libro «che tutti gli studenti leggevano», Art and Visual Perception: a Psychology of the Creative Eye, di Rudolf Arnheim (emigrato anch’egli negli Stati Uniti nel 1940). L’importanza di quel libro risiedeva nel fatto che Arnheim per primo avesse funzionalmente applicato le leggi della psicologia della percezione visiva alla lettura dell’opera d’arte. Secondo la Gestaltpsychologie (la Psicologia della forma) infatti, qualunque fenomeno estetico si può comprendere e dunque spiegare non solo ed esclusivamente da un punto di vista semantico, vale a dire di un contenuto, ma anche soltanto attraverso le cosiddette regole sintattiche, vale a dire la sua “forma”, intesa come un insieme strutturato delle singole parti: il modo in cui gli elementi figurali interagiscono tra loro e rispetto al campo, l’equilibrio visivo, il valore spaziale del colore, la sovrapposizione fenomenica e in generale le regole di organizzazione visiva.
È questo, per altro, il significato di Gestalt.
Devo ribadire l’importanza di tutto ciò ai fini di una reale comprensione del percorso di ricerca di Adele Plotkin. Percorso che inizia nei primi anni cinquanta, a Yale. Il lettore deve anche sapere che il background cui poggiava tutta l’organizzazione didattica voluta da Albers, aveva una storia che non può esser trascurata. Quella che vedeva protagonisti lo stesso Albers, insieme a Klee, Kandinsky, Itten, in una esperienza didattica all’interno del Bauhaus degli anni venti e trenta in Germania, volta allo studio della genetica della forma.
È all’interno di questo gruppo che nasce una nuova concezione dell’arte ma soprattutto una ideologia della creazione artistica.
È in quel contesto che nasce una teoria della progettazione, un metodo rigorosamente “razionale” volto a spiegare i meccanismi della forma nel suo continuo divenire. Un concetto chiamato Gestaltung, certamente non facile da comprendere, ma che sarà divulgato da quegli stessi artisti attraverso le loro opere e i loro numerosi scritti. Quel che importa sapere adesso è che alle spalle dell’esperienza di Yale vi è tutto questo, laddove Josef Albers ha rappresentato un filo di continuità con la storia; così come analogamente accadde, all’incirca negli stessi anni a Chicago, presso la New Bauhaus grazie alla presenza di László Moholy-Nagy.
Ma dobbiamo ritornare a tempi più recenti, quelli che vedono quasi un riaffiorare nella vita artistica di Adele Plotkin, dell’esperienza di Yale e delle lezioni con Albers. Perché lei stessa ne incarnerà metodi ed esperienza durante il periodo trascorso con i suoi privilegiati studenti in Accademia di Belle Arti. Ritengo che questa esperienza sia stata per lei di capitale importanza; del resto, qualcosa di simile era già accaduto con lo stesso Albers e i suoi studenti americani. Infatti fu proprio come conseguenza di quelle lezioni che nacque uno speciale sodalizio studente-insegnante, che portò alla realizzazione di uno dei testi più importanti sulla teoria del colore: Interaction of Color. Gli addetti ai lavori obietteranno sul fatto che si trattasse di un corso sulla teoria del colore, infatti questo libro (che in origine era assai “ingombrante” come lo definiva lo stesso Albers, perché troppo pieno di tavole e spiegazioni) non era altro che una raccolta di esperimenti sul colore svolti dagli allievi del Corso; quasi un libro realizzato dagli studenti “insieme” all’insegnante. Non un libro sulla teoria, bensì un libro sulla pratica del colore. Ma tutto quanto questo “fare” poggiava inevitabilmente (o per chi preferisce, ne spiegava le ragioni teoriche) su un approccio gestaltico alla percezione visiva. Si spiega perché soltanto una allieva di Albers potesse accollarsi un tale insegnamento. Dunque, la psicologia sperimentale di Arnheim unita alla verifica pratica di Albers, presero a contraddistinguere le lezioni tenute in Accademia di Belle Arti da Adele Plotkin. Questo consentì all’artista di Newark di rivivere lei stessa quella esperienza che, a distanza di anni era tornata improvvisamente vitale.
04 novembre 2013 | La Gazzetta del Mezzogiorno |
03 novembre 2013 | Pugliain.net |
03 novembre 2013 | Corriere del Mezzogiorno |
29 ottobre 2013 | La Gazzetta del Mezzogiorno |