50 grandi idee astronomia
I concetti fondamentali dell’astronomia e della cosmologia espressi in un linguaggio semplice e chiaro. Una panoramica esaustiva di queste affascinanti discipline, con numerosi accenni alla ricerca contemporanea.
- Collana: 50 grandi idee
- ISBN: 9788822069160
- Anno: 2017
- Mese: maggio
- Formato: 17 x 20 cm
- Pagine: 208
- Note: illustrato
- Tag: Scienza Cosmologia Astronomia Universo Astrofisica
Dal Sistema Solare fino ai confini più estremi dell’Universo, 50 grandi idee astronomia descrive il cosmo in cui viviamo, raccontandone la storia e descrivendone i misteri. Come ha avuto inizio l’Universo? Cosa succede nel cuore di un buco nero? Perché le onde gravitazionali, rivelate sperimentalmente soltanto un secolo dopo essere state previste dalla teoria della relatività generale, sono così importanti?
Ognuno dei 50 brevi capitoli dell’affascinante libro di Giles Sparrow è dedicato a chiarire i concetti, le scoperte e i segreti della storia dell’astronomia e della cosmologia. Grazie anche all’aiuto di disegni, cronologie e riquadri di approfondimento, il volume esplora la natura e la varietà del cosmo, appagando le curiosità del lettore e suscitando sempre nuove domande, alcune delle quali (come la natura della materia e dell’energia oscure) ancora in attesa di risposta.
Introduzione - IL SISTEMA SOLARE - 01 Il nostro posto nell’Universo - 02 Osservare i cieli - 03 Il regno del Sole - 04 La nascita del Sistema Solare - 05 Le migrazioni planetarie - 06 La nascita della Luna - 07 L’acqua su Marte - 08 Giganti gassosi e ghiacciati - 09 Lune ricoperte di oceani - 10 I pianeti nani - 11 Asteroidi e comete - 12 C’è vita nel Sistema Solare? - 13 Il Sole: primo piano su una stella - LE STELLE - 14 Misurare le stelle - 15 Chimica stellare - 16 Il diagramma di Hertzsprung-Russell - 17 La struttura delle stelle - 18 La fonte di energia delle stelle - 19 Il ciclo vitale delle stelle - 20 Le nebulose e gli ammassi stellari - 21 La nascita delle stelle - 22 Le stelle nane - 23 Le stelle binarie e multiple - 24 Alla ricerca di esopianeti - 25 Altri sistemi solari - 26 Zone abitabili - 27 Le giganti rosse - 28 Stelle che pulsano - 29 Le supergiganti - 30 Le supernove - 31 I resti delle stelle - 32 Stelle binarie estreme - 33 I buchi neri - LE GALASSIE - 34 La Via Lattea - 35 Il cuore della Via Lattea - 36 I tipi di galassie - 37 Collisioni galattiche - 38 I quasar e le galassie attive - L’UNIVERSO - 39 L’Universo su larga scala - 40 L’Universo in espansione - 41 Il Big Bang - 42 La nucleosintesi - 43 Il cosmo primordiale - 44 I confini dell’Universo - 45 La materia oscura - 46 L’energia oscura - 47 La relatività e le onde gravitazionali - 48 La vita nell’Universo - 49 Il multiverso - 50 Il destino dell’Universo - Glossario - Indice analitico
Alla ricerca di esopianeti
Quando gli astronomi iniziarono ad accettare che il nostro Sole e il nostro posto nella Via Lattea non hanno nulla di speciale, diventò plausibile che anche le stelle lontane potessero avere un proprio sistema planetario. Dimostrare che questo era vero, tuttavia, avrebbe richiesto molto tempo: i cosiddetti “esopianeti” sono stati trovati in numero consistente soltanto a partire dagli anni ’90 del Novecento.
La ricerca di pianeti in orbita intorno ad altre stelle è stata lungamente intralciata dai limiti tecnologici. Nel 1916, tuttavia, insieme alla scoperta della Stella di Barnard arrivarono anche le prime speranze di trovare pianeti alieni. Questa fioca nana rossa era citata nei cataloghi stellari, ma l’astrofotografo Edward Emerson Barnard fu il primo a individuare la strana ampiezza del suo moto proprio; un movimento equivalente al diametro della Luna piena, percorso ogni 180 anni, suggeriva che la Stella di Barnard fosse vicina al nostro Sistema Solare, e ben presto le misure di parallasse (si veda p. 58) confermarono che è situata a soli 6 anni-luce dal Sole, distanza che la rende la quarta stella a noi più vicina.
Una falsa partenza Ben presto l’astronomo olandese Piet (noto anche come Peter) van de Kamp comprese che il grande moto proprio della Stella di Barnard avrebbe dovuto avere oscillazioni particolarmente degne di nota, dovute alla spinta gravitazionale dei pianeti più grossi del proprio sistema. Per oltre trent’anni, a partire dal 1937, l’astronomo tenne regolarmente traccia della precisa posizione della stella, finché, nel 1969, pubblicò le prove dell’esistenza di due pianeti simili a Giove. Le sue osservazioni si dimostrarono però difficili da replicare, cosicché negli anni ’80 si concluse che van de Kamp si era sbagliato, forse a causa di problemi nelle sue attrezzature. La storia della Stella di Barnard lasciò molti scienziati con l’amaro in bocca; prese piede un atteggiamento di maggior scetticismo, in cui la maggior parte degli astronomi cominciò a pensare che, per qualche ragione, i pianeti in orbita intorno alle altre stelle fossero molto rari.
Fortunatamente, dopo pochi anni questa posizione fu messa sotto scacco da un nuovo metodo per scoprire i pianeti extrasolari, più sensibile di quello utilizzato fino ad allora.
Il successo tanto atteso L’idea di rivelare i pianeti orbitanti intorno ad altre stelle misurando i cambiamenti della loro velocità radiale (il movimento in direzione della Terra, o in quella opposta) fu proposta già nel 1952 da Otto Struve. Questo astronomo ucraino-americano suggerì che, proprio come le binarie spettroscopiche mostrano la loro vera natura attraverso gli spostamenti Doppler delle proprie linee spettrali (si veda p. 94), utilizzando uno spettrografo abbastanza sensibile, l’influenza di un pianeta sulla stella attorno al quale ruota dovrebbe in qualche modo emergere.
Ma come aveva scoperto van de Kamp, rimaneva comunque un problema: un pianeta ha ben poca influenza sulla propria stella! A seconda delle masse relative e della dimensione dell’orbita planetaria, potremmo sperare al massimo di scoprire un’oscillazione dell’ordine di qualche metro, in una velocità media che tipicamente si misura in termini di chilometri al secondo. Per rilevare variazioni così minuscole è necessario dividere la luce della stella in un ampio spettro ad alta dispersione, cosa impossibile da fare con la tecnologia dell’epoca. Negli anni ’80, tuttavia, i progressi della tecnica portarono alla creazione dei primi spettrografi échelle, adatti ad analizzare la debole luce delle stelle. Questi strumenti riescono a creare uno spettro ampio grazie a una coppia di reticoli di diffrazione che ricevono la luce delle singole stelle tramite fibre ottiche.
Lo spettrografo échelle ELODIE, utilizzato da Michel Mayor e Didier Queloz presso l’osservatorio dell’Alta Provenza a partire dal 1993, fu progettato appositamente per la ricerca di pianeti extrasolari e, ben presto, dimostrò il proprio valore.
Nel 1995, Mayor e Queloz annunciarono la scoperta di un pianeta di massa pari ad almeno la metà di quella di Giove in orbita intorno alla stella 51 Pegasi, relativamente vicina a noi. Si trattò per ELODIE della prima di una lunga serie di scoperte analoghe, fatte anche dalle controparti dello spettrografo situate nell’emisfero sud.
I transiti e altri metodi Alcuni anni dopo queste prime scoperte, altri successi furono raggiunti grazie a una tecnica ancora più efficace: il metodo dei transiti. Esso richiede di misurare il minuscolo abbassamento nell’emissione luminosa di una stella che si verifica quando un pianeta le passa davanti. Dal momento che le dimensioni della stella sono relativamente facili da determinare a partire dalle sue caratteristiche spettrografiche (si veda p. 65), la flessione nello spettro di emissione rivela la dimensione del pianeta in transito. Ovviamente, i transiti accadono soltanto in rari casi, quando l’orbita del pianeta è allineata con la Terra, ma, data la sensibilità dei moderni strumenti utilizzati per misurare la luce (i fotometri), al momento si tratta della tecnica più veloce per identificare gli esopianeti di massa minore e dimensioni analoghe a quelle terrestri.
Il primo pianeta extrasolare scoperto con il metodo dei transiti, nel 1999, orbita intorno a una misconosciuta stella simile al Sole catalogata come HD 209458, che si trova a pressappoco 150 anni-luce di distanza da noi, nella costellazione di Pegaso. Gli astronomi sapevano già che questa stella ha un pianeta che le orbita vicino, grazie a misure di velocità radiale; il metodo dei transiti confermò che il raggio del pianeta è circa 1,4 volte quello di Giove. Da questa prima scoperta, effettuata dall’osservatorio Keck alle Hawaii, i telescopi satellitari a caccia di esopianeti con il metodo dei transiti sono stati finora il mezzo più efficace per scoprirne di nuovi. Il primo fu il telescopio francese COROT, in funzione tra il 2006 e il 2012; lo strumento messo a punto dalla NASA, soprannominato Kepler, arrivò soltanto in seguito. La posizione in orbita consente a un telescopio di monitorare continuativamente la luminosità di un intero campo di stelle per lunghi periodi, senza interruzioni, rendendo più facile il rilevamento di pianeti con le orbite più lunghe.
Le proprietà dei pianeti Tipi diversi di tecniche per andarea caccia di pianeti extrasolaririvelano diverse proprietàfisiche. Il metodo della velocitàradiale, per esempio, assegna alpianeta una massa minima necessariaper causare le oscillazioninella stella, ma a meno di conoscerel’orbita del pianeta non è ingrado di determinarne il valoredella massa con maggior precisione.Il metodo dei transiti, percontro, è in grado di rivelarci il diametro di un pianeta, ma non la sua massa. Nellapratica, il modo per ottenere il maggior numero possibile di informazioni su unesopianeta consiste nell’utilizzare entrambe le tecniche. Poiché il semplice fattoche un pianeta transiti davanti alla propria stella vincola la sua inclinazione orbitalee la sua possibile massa, ottenere anche i dati sulla velocità radiale insieme auna misura del diametro permette di confermare la densità del pianeta e consentireagli astronomi di ricavarne la sua probabile composizione interna.
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