Lo sguardo vuoto
L'esaurimento della cultura europea
Attraverso un nuovo punto di vista critico, il percorso della formazione dell’Europa: le sue radici, la sua storia e la sua identità.
- Collana: Strumenti / Scenari
- ISBN: 9788822053800
- Anno: 2009
- Mese: giugno
- Formato: 14 x 21 cm
- Pagine: 264
- Tag: Sociologia Politica internazionale Europa
La formazione dell’identità europea è caratterizzata, secondo Mattéi, dalla nascita di uno sguardo che si distanzia dal proprio oggetto e, declinandosi all’infinito, permette di illuminare e preservare la verità di quanto osserva, anche dell’«altro» più remoto. Tracciare la storia della nascita di tale sguardo, a partire dall’incrocio fra mito, letteratura e filosofia, significa stabilire la specificità di quello che è l’unico elemento in grado di definire propriamente l’identità europea. Senza rinnegare le radici stesse da cui è nata l’Europa, Jean-François Mattéi cerca di «tenere la rotta» di una valorizzazione della cultura europea che renda giustizia alla sua storia mediterranea, ai contributi originari del mito e della religione, del pensiero artistico e filosofico, ma, soprattutto, alla dimensione della trascendenza, costitutiva di ogni esperienza artistica, spirituale e teoretica. Come già mostrava Walter Benjamin, senza di essa, ai cittadini europei pare essere rimasta solo la possibilità di muoversi nel mondo dell’economia e delle merci come automi dallo «sguardo vuoto».
Introduzione - Lo sguardo distanziato - La critica dell’identità - Il processo di identificazione - Cultura e civiltà - L’anima dell’Europa - L’apertura dello sguardo - 1. Lo sguardo sul mito - Il rapimento divino - La donna dall’ampio sguardo - L’idea dell’Europa - L’innesto cristiano - La fondazione delle Università - Il progetto politico - Il mito della civiltà - Lo sguardo nostalgico - 2. Lo sguardo sul mondo - Il diritto di sguardo - Lo sguardo trascendentale - La cura dell’anima - La cultura dell’anima - La scuola dello stupore - Il declino dell’aura - La scomparsa del mondo - La crisi del senso - 3. Lo sguardo sulla città - Lo sguardo indignato - L’esigenza di giustizia - L’appello della libertà - Plus ultra - La perversione del movimento - Il rifiuto dell’Europa - Lo stesso capo - L’anamnesi dell’Europa - 4. Lo sguardo sull’anima - Lo sguardo riconoscente - L’uomo interiore - Lo specchio dello sguardo - Lo sguardo stellato - L’eclissi della distanza - Il riflesso di Narciso - L’uomo vuoto - La strizzata d’occhio - 5. L’accecamento dello sguardo - Il diritto della trascendenza - Il senso del senso - La decostruzione del senso - La distruzione dell’opera - Il paradosso delle culture - L’ombra dell’Europa - L’orizzonte plumbeo - Lo sguardo delle statue - Epilogo - «Non conoscono il cammino...» - Bibliografia
Epilogo
«Non conoscono il cammino...»
Mentre scrivo questo testo, sto guardando un’acquaforte di Goya, incisa fra il 1810 e il 1820, appartenente a una serie di stampe intitolata I disastri della guerra e pubblicata tardivamente nel 1863. La settantesima incisione, No saben el camino, dai toni seppia, è di dimensioni modeste (177 — 220 mm). Vi vediamo la processione di una ventina di figure, confuse nella penombra del panorama roccioso nel quale si muovono. Due preti in abito bianco, uno tonsurato, l’altro coperto da un cappuccio, tre o quattro nobili che indossano il tricorno e alcuni laici compongono lo strano corteo che serpeggia in fila indiana. Tutti hanno la testa bassa o gli occhi vuoti, e avanzano vacillando verso una vicina voragine, in mezzo a un mucchio di rocce desertiche. Sono legati gli uni agli altri per il collo e sembrano seguire una guida al limite destro della scena, della quale scorgiamo soltanto il volto inorridito e la mano tesa in un gesto di supplica. Ma forse anch’egli è solo una maglia indifferente della catena, non quello che la guida, così come, a mia volta, io sono solo uno spettatore di passaggio nella serie di coloro che hanno osservato quel disegno.
Una luce bianca a forma di fungo, in alto a destra nell’incisione, lacera senza dissiparla l’oscurità di gran parte dell’immagine che prevale nel centro, in basso e a destra. Tutta la scena è priva di un orizzonte e di un’altezza. Senza orientamento, le figure camminano pesantemente, inebetite, senza vedere il cammino lungo il quale avanzano a fatica e, ancor meno, il piano verticale che fisserebbe il limite del loro sguardo. Lo spazio superiore, di color creta, potrebbe essere sia il cielo visto dal basso della montagna, sia il mare visto dall’alto di una falesia: impossibile decidere. Ma in ogni caso, esso è ben separato dallo spazio inferiore, nel suo labirinto tortuoso in cui errano senza speranza personaggi simili a ombre, trascinati in un funebre girotondo infantile.
Baudelaire conosceva questa stampa? Il sonetto intitolato I ciechi ne sembra quasi la descrizione, parallelamente alla strofa de I fari consacrata a Goya, «incubo colmo di cose sconosciute»:
Guardali, anima mia: fanno quasi paura!
Simili a manichini, muovono un poco al riso,
strani come sonnambuli, terribili nel viso,
chissà dove dardeggiano i loro globi scuri.
I loro occhi, ormai privi di scintilla divina,
come per lontananze assorti, son levati
al cielo. Mai appaiono rivolti giù al selciato,
la testa affaticata, pensosamente china.
Così l’illimitato nero van attraversando,
fratello del silenzio eterno. O città, quando
tutt’intorno tu canti e ridi e berci e imprechi
fino in fondo ai piaceri più perversi affondando,
vedi, anch’io mi trascino ma, ancor più miserando,
dico: cosa mai cercano in Cielo questi ciechi?.
Possiamo interpretare in molti modi questo cammino del pittore che incrocia quello del poeta. Certi critici hanno pensato a una citazione della Parabola dei ciechi di Bruegel, che commentava le parole di Gesù ai farisei: «Quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso». Altri vi hanno individuato una critica delle élites spagnole che opprimevano la libertà del popolo. Da parte mia, io vi vedo non una nuova variazione sul tema della caverna platonica, bensì il mito di un’Europa giunta dal fondo dei secoli, come la processione che avanza dallo sfondo del disegno. Ogni generazione è incatenata alle precedenti e alle seguenti, ogni uomo è legato a quello davanti a lui e a quello dietro di lui, ma tutti si ignorano a vicenda camminando in avanti con le spalle curve e il capo chino, mentre i primi della fila sono ridotti alle sole teste appena abbozzate, fra le quali spicca quella della guida con la faccia spaventata e quasi senza occhi. Il cammino roccioso continua tortuoso in uno spazio vuoto e astratto nel quale non si può distinguere un’origine né una fine, né una predestinazione né una salvezza.
Il filosofo brasiliano Bento Prado Júnior, che ha richiamato la mia attenzione sull’incisione di Goya, ha individuato in essa l’immagine del nomadismo della nostra epoca, smarrita in un labirinto senza vie d’uscita. Per meglio spiegare la propria interpretazione, egli proponeva di cambiare il titolo dell’opera, No saben el camino («Non conoscono il cammino»), in No sabemos el camino («Non conosciamo il cammino»). E commentava così il nuovo titolo, applicandolo alla situazione attuale:
Se non siamo capaci di distinguere le vie sulla superficie della Terra, è perché non siamo capaci di localizzarci, sulla Terra, fra il cielo che è sopra di essa e l’inferno che – come si crede – si trova sotto. Ciò che appunto ci manca è l’orizzonte.
Non posso fare a meno di pensare, leggendo queste righe, alla magnifica frase di George Steiner contenuta in uno dei suoi primi libri, Nel castello di Barbablù, che illumina la dualità della condizione umana:
Non avere né paradiso, né inferno, significa essere intollerabilmente privi di tutto, in un mondo assolutamente piatto.
Qualche mese prima della sua morte, Bento Prado Júnior aggiungeva che questo nomadismo, votato alla «ricerca interminabile dell’orizzonte» nella grande pianura della nostra indifferenza, non si riduce alla semplice curiosità. Esso ci trascina in una ricerca più alta, costantemente guidata non da un volto cieco, bensì, secondo il filosofo brasiliano, «da un telos etico». Egli riprendeva qui, in un paese giovane e molto lontano dalla vecchia Germania, l’espressione di Husserl. Un simile telos rivela l’altezza essenziale della cultura europea, che sovrasta il proprio orizzonte storico imprimendogli il giusto orientamento. Potremo riconoscere il cammino e liberarci dalle nostre catene grazie a una conversione dello sguardo che renda visibile ciò che ci è talmente vicino che non riusciamo più a vedere. E la cultura ci invita proprio a questa conversione, permettendoci di ritrovare ogni volta, secondo una metafora molto più antica, «il cammino che ci riporta a casa».
11 settembre 2009 | La Sicilia |