Italia disorganizzata
Incapaci cronici in un mondo complesso
prefazione di Mauro Barberis
Perché stentiamo a far funzionare ogni organizzazione complessa tipica della modernità? Dalla pubblica amministrazione all'impresa, dall'ospedale ai sistemi di mobilità, un paese individualisticamente povero e inefficiente mette a repentaglio, con gli standard minimi di governo, la sua stessa libertà.
- Collana: Libelli vecchi e nuovi
- ISBN: 9788822055026
- Anno: 2006
- Mese: settembre
- Formato: 12,5 x 21 cm
- Pagine: 152
- Tag: Società Politica Sociologia Politica italiana
La patria dei più grandi organizzatori dell'antichità, i romani, è ora il paese dove eccellono solo unità minime, individuali. Per la prima volta, nel deprimente elenco delle patologie che affliggono «il caso italiano» (familismo amorale, collusione tra sistema politico ed economia, inadeguatezza delle classi dirigenti, compromissione dei partiti con settori della malavita organizzata), viene messa a fuoco una cronica debolezza culturale e operativa che spiega lo specifico nazionale: il deficit organizzativo. Perché stentiamo sistematicamente a far funzionare con efficienza le megamacchine sociali, le strutture complesse della modernità (dalla fabbrica integrata all'ospedale, dalla pubblica amministrazione agli apparati militari e di polizia), non meno di una semplice coda per acquistare un biglietto del cinema? Perché continuiamo a consolarci con il mito del genio italico, che cerca sempre l'uomo forte (da Mussolini a Berlusconi) come soluzione ai problemi? La vecchia modernità accentratrice e «piramidale» ci ha visto in evidente difficoltà; il nuovo mondo delle reti sarebbe l'occasione per superare il deficit organizzativo colmando limiti tecnici e interiorizzando il valore liberale della partecipazione deliberativa.
Una prefazione à la plage di Mauro Barberis - 1. L'italica allergia al «Fattore O» - 2. Organizzazione, di cosa parliamo - 3. La colonizzazione del pubblico - 4. Il familismo privato - 5. Pubblico/privato: il nuovo paradigma ibrido - 6. L'Italia nella società in rete - 7. La pianificazione dei territori (ovvero, una rosa è una rosa) - 8. Conclusioni, ovviamente «aperte» - Note
Una prefazione à la plage
Il lettore che per avventura, nel declinare dell'estate 2006, s'imbattesse in questo libro, e non si accontentasse di ammirarne la copertina, potrebbe essere visitato da dubbi. Potrebbe confonderlo, ad esempio, con l'ennesimo contributo all'annoso dibattito sull'Anomalia Italiana: dibattito nel quale il tema della disorganizzazione funge da leit motiv. Potrebbe assimilarlo ai libri di ricette aziendal- manageriali: con i quali condivide solo un gergo irto di trend e di gap, di governance e globalizzazioni. Ma anche se lo attribuisse al genere suo proprio – la riflessione interdisciplinare sui modelli di organizzazione – potrebbe ancora trovarlo troppo brillante e magmatico, per ritenerlo pure scientificamente affidabile. In realtà, all'Italia disorganizzata – il libro, non la cosa – manca forse solo una prefazione che ne districhi i nodi e ne dipani i temi: magari proprio questa prefazione, molto poco à la page e sin troppo à la plage, ma comunque opportunamente affidata a chi, sapendo solo di non sapere, ha tanta più voglia di capire. Il libro consta di otto capitoli, sapientemente organizzati in modo da occultare il loro ordine riposto (e da consentire al prefatore di esplicitarlo). Il primo capitolo, come del resto il titolo del libro, funge essenzialmente da specchietto per le allodole: adesca il lettore convincendolo che gusterà l'ennesima tirata sui vizi nazionali, cui il lettore medesimo è tanto più interessato in quanto nascostamente ne partecipa e anzi segretamente li sponsorizza. A questo punto, quando il lettore si è ormai adagiato sul sofà del luogo comune, gli autori gli assestano il primo dei tanti colpi bassi: un secondo capitolo dedicato addirittura al concetto stesso di organizzazione, con definizioni, analisi, tipologie, ipotesi di sviluppo, insomma tutto ciò che potrebbe desiderare il più meticoloso dei filosofi oxoniensi. S'impone molto presto l'idea che l'organizzazione del futuro non sia né a ragnatela (con un centro e progettata) né a rizoma (senza centro né progetto), bensì a rete (network): progettata ma senza centro. Il lettore si è appena ripreso dallo stordimento che gli autori, come per consolarlo, gli raccontano una storiella poco edificante: la storia dell'entropia (dis)organizzativa italiana, dal peccato originale postcavouriano alle miserie dei giorni nostri. È una storia che si prende altri tre capitoli, ma che soddisferà profondamente il nostro hypocrite lecteur: coinvolgendo pubblico e privato, anzi inestricabilmente intrecciandoli, in modo da non rivelare subito chi sia mai l'assassino. Proprio qui, all'altezza del sesto capitolo, al lettore appena sintonizzatosi su un mood disfattista – in fondo, che c'è di più rassicurante delle catastrofi? – viene inferto il colpo peggiore. E se tutto il ritardo accumulato nei confronti dell'Occidente – si insinua a tradimento – se tutti i treni persi, e le occasioni perdute, non ci mettessero paradossalmente nella condizione di poter innovare, facendo tesoro degli errori altrui? Se le nuove modalità postfordiste della produzione e della distribuzione offrissero inopinatamente un'ultima chance al nostro talento anarchico, al nostro gusto per l'improvvisazione? Soprattutto: e se il pendolo di Hirschman, dopo la tanto sbandierata oscillazione verso il mercato, tornasse a oscillare verso il pubblico, la solidarietà, la partecipazione? Il lettore, nei tre capitoli finali, viene artigliato dall'inquietudine. Passino la disorganizzazione, l'inefficienza, il declino, tutte cose cui s'era da tempo felicemente rassegnato. Ma le nuove modalità dell'organizzazione – il «fare rete» (networking), l'ibridazione di pubblico e privato, la governance e la deliberazione globale, la pianificazione territoriale, i patti strategici, giù giù sino alla conversione alla logistica proposta come destino per la penisola nelle ovviamente «aperte» conclusioni – ma tutto questo, insomma, non pretenderà di coinvolgere anche lui, non a caso nostro semblable e frère? Tutto ciò non richiederà, da parte sua, oltreché organizzazione e innovazione, addirittura mobilitazione e impegno? Si aprono spiragli davvero inquietanti. Resta appena da dire che Italia disorganizzata, come secondo pamphlet della collana «libelli vecchi e nuovi», curata per Dedalo da «Critica liberale», concorre anch'esso ad articolare quel discorso critico sulle relazioni di potere che è l'obiettivo di ogni liberalismo. Ci si potrebbe chiedere, dunque, quale sia il suo specifico contributo a questo discorso, e si potrebbe abbozzare questa risposta. Per millenni, l'unica garanzia degli individui contro il potere sono state le famiglie, i gruppi, le corporazioni; poi è venuta la grande illusione liberale, l'idea che il potere diffuso nei corpi sociali potesse concentrarsi nello Stato, e così venire controllato ed esorcizzato. La novità che filtra in questo libro non è certo che l'illusione si sia dissolta, insieme con i confini di società e Stato; la novità, semmai, è che questo non significhi necessariamente il ritorno al corporativismo. Certo, anche nelle organizzazioni «in rete» circola il veleno del potere: ma forse, insieme con esso, il suo antidoto.
Argentario, 16 luglio 2006 Mauro Barberis