Arcangelo
Dall’autrice di Specie rare, cinque splendidi racconti permeati di scienza e popolati da personaggi umanissimi, in bilico tra l’entusiasmo e l’angoscia di chi vive profondi mutamenti concettuali e personali.
- Collana: ScienzaLetteratura
- ISBN: 9788822015150
- Anno: 2015
- Mese: ottobre
- Formato: 13 x 21 cm
- Pagine: 240
- Tag: Letteratura Romanzo
È lo sguardo di Constantine Boyd ad aprire e chiudere questa raccolta: lo sguardo stupito e avido di conoscenza del dodicenne protagonista del primo racconto, Gli sperimentatori, e quello vitreo per l’orrore del soldato Boyd, bloccato da una guerra incomprensibile nella città russa di Arcangelo nell’omonimo racconto finale. Entro il cerchio della sua esistenza si dipanano in una rete di rimandi incrociati le vicende degli altri personaggi, colti nel travagliato momento in cui si sta affermando una nuova teoria scientifica. L’anziana Henrietta Atkins che illustra a Constantine un esperimento per verificare come si sono adattati all’ambiente alcuni pesci è stata, ne L’isola, una studentessa costretta dalla ragione ad abbracciare le nuove teorie di Darwin, anche a costo di rinunciare alla venerazione per il proprio maestro. Mentre si sta affermando la teoria della relatività, Sam si aggrappa alla concezione ormai superata dell’etere nella speranza di una possibile comunicazione ultraterrena con il padre scomparso e molti anni dopo viene fuorviato nelle sue ricerche di genetica dalla rivalità scientifica. Le passioni umane sono soggette alle leggi del caos, sembra dire Andrea Barrett, e solo la razionalità consente di scoprire nel mondo un ordine rassicurante. Cinque racconti limpidi e folgoranti, una serie di personaggi difficili da dimenticare.
Gli sperimentatori1908 - L’etere dello spazio1920 - L’isola1873 - Le particelle1939 - Arcangelo1919 - Nota dell’autrice e ringraziamenti
Henrietta deglutì due volte e si sporse ancor di più dal bordo. Il mare si era addensato, rappreso, si sollevava formando protuberanze sconcertanti. A un tratto si ritrovarono a galleggiare non sull’acqua, ma su un banco di meduse, talmente fitto che quelle prossime alla superficie venivano spinte parzialmente fuori dalle sottostanti, e talmente compatto che Edward, quando vi affondò un remo per girare la barca, dovette aprirsi a forza un varco tra gli animali. Tutte le imbarcazioni, vide Henrietta, erano circondate allo stesso modo: il banco formava un cerchio approssimativo del diametro di quindici metri, palpitante come un’unica, gigantesca medusa.
«Accostate le barche!» gridò il professore dall’imbarcazione che li precedeva. «Ora fermi, tutti quanti!». Si era alzato in piedi e se ne stava lì, con le braccia aperte per tenersi in equilibrio, dando l’impressione di poter cadere in mare da un momento all’altro, ma di essere troppo felice per curarsene. Gridò delle istruzioni, che sua moglie ripeté a voce più bassa mentre gli studenti piantavano le reti nel banco.
Henrietta lavorava con Edward e Daphne, cercando di tenere a freno l’eccitazione e di suddividere correttamente i campioni. Un secchio per le specie più grosse, il secondo per i Pleurobrachia e gli altri ctenofori, ciotole di vetro per le creature più delicate, che andavano tenute separate.
Mentre Daphne ed Edward si servivano delle reti, Henrietta fece scivolare una ciotola sotto un piattino trasparente che pulsava come un polmone: un’Aurelia, spessa e pesante al centro, sottile e viscida ai margini, che debordava lungo tutta la circonferenza del contenitore. Quando la trasferì in un secchio, vi cadde con un tonfo preoccupante. «Un tempo», stava urlando il professore, riprendendo da dove si era interrotta la moglie, «si riteneva che ogni metamorfosi dell’Aurelia fosse una specie a sé. La fase idroide veniva chiamata Scyphistoma, la forma con le gemme sovrapposte Strobila. Il primo stadio della medusa, quando si è appena scissa ed è ancora piccola e profondamente lobata, era chiamato Ephyra. Solo lo stadio che vedete qui – l’adulto in fase riproduttiva – portava il nome di Aurelia, sebbene ora le identifichiamo come quattro forme diverse dello stesso animale».
Henrietta scostò le scarpe di tela, già fradice e macchiate, dalle reti che sgocciolavano sul tavolato. Nel secchio vicino al piede sinistro, un piccolo ctenoforo rosa lasciato cadere per sbaglio tra le meduse più grandi veniva divorato proprio in quel momento. La Zygodactyla che lo stava mangiando non sembrava forse un’enorme bocca?
L’altro secchio brillava furiosamente di luce rifratta dai lunghi tentacoli dei Pleurobrachia e dai minuscoli pettini frangiati dell’Idyia, che guizzavano avanti e indietro producendo ondate di colori: rosa, poi viola, poi giallo, poi verde, poi di nuovo rosa, stavolta più carico.
«Quanta varietà», osservò la moglie del professore, chinandosi sopra la spalla di Edward. La corrente li aveva trasportati al margine del banco e Henrietta tornò a vedere l’acqua, con le meduse più rade disseminate qua e là.
«Quanta bellezza».
Di fronte a Henrietta, Daphne aveva le braccia immerse e stava lottando con la rete. «Puah», fece, senza riuscire a issare a bordo quello che aveva trovato. «Che roba è?».
«Ah, ottimo!» esclamò la moglie del professore.
Quando Edward virò di qualche grado, la rete di Daphne passò a poppa e allora Henrietta vide il gigantesco corpo trasparente e rossiccio della medusa, largo quanto la barca, con i lobi marroni e color carne pendenti da un bordo bianco arricciato. Dietro penzolava un enorme groviglio di tentacoli marroni, gialli e viola.
Al professore, distante poco più di un metro, la moglie gridò: «Cyanea!».
Come risposta, lui prese un remo dallo studente che vogava e lo usò per far ruotare la prua, piantandola nel fianco dell’animale finché l’enorme disco gelatinoso non si trovò stretto fra la sua barca e quella di Henrietta. Poi fece segno alle altre imbarcazioni di avvicinarsi lentamente in modo analogo, formando un cerchio approssimativo.
«È troppo pesante per prenderla a bordo con l’attrezzatura che abbiamo», spiegò. «E troppo fragile: il suo stesso peso la farebbe a pezzi, se cercassimo di sollevarla. Ma possiamo osservarla con attenzione da qui».
Quelli che ne avevano la possibilità scrutarono l’acqua sotto di sé, alcuni misurando il diametro dell’ombrello – almeno un metro e mezzo, concordarono – altri esaminando gli ovai bitorzoluti, le parti boccali, le macchie oculari lungo il bordo. I tentacoli, fece notare il professore, non erano disposti in modo caotico come sembrava, ma raccolti in otto fasci. Ordinò all’equipaggio di una barca di staccarsi lentamente dal cerchio e di seguire un gruppo di tentacoli finché non scomparivano, il che avvenne soltanto, scoprirono gli studenti meravigliati, dopo una decina di metri: il giovane vogatore biondo dal viso spruzzato di efelidi sollevò il remo e mostrò le estremità finali che ricadevano dalla pala. Nel frattempo il professore continuò a illustrare le analogie strutturali tra la Cyanea e l’Aurelia.
Daphne smise di guardare la medusa e si rivolse al professore. «Molto interessante. Queste somiglianze, queste analogie, potrebbero essere considerate la prova che le due forme sono affini, che discendono da un progenitore comune».
Il professore scosse la testa. «Lei sta alludendo alle teorie di Darwin, lo so».
Certo che lo sapeva, pensò Henrietta. Era vecchio e stanco, ma sapeva cosa leggevano, e anche che Daphne lo stava sfidando. Forse sapeva perfino di avere torto, e tuttavia doveva ripetere le solite lezioni stantie. Una noia mortale! Lei voleva applicare i suoi stessi insegnamenti: indagare il mondo reale in prima persona. Senza lasciargli il tempo di aggiungere altro, si sporse e infilò le mani nell’acqua in direzione della Cyanea. La superficie era liscia, sorprendentemente elastica e allo stesso tempo cedevole sotto la pressione della mano. Fece scorrere la sinistra dal corpo tondeggiante all’interno del viluppo di soffici tentacoli. Quasi subito sentì pungere e pizzicare, poi avvertì un forte bruciore. Con un grido, ritirò la mano dall’acqua e si raddrizzò sul sedile.
«Santo cielo», mormorò la moglie del professore. «Avrei dovuto avvertirla: “acalefe” deriva da una parola greca che significa “ortica”, e ovviamente allude alle proprietà urticanti di queste creature. Non le procurerà danni permanenti, ma le prossime ore saranno molto sgradevoli».
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