Spelix
Storia di gatti, di stranieri e di un delitto
Che c’entra un gatto con un omicidio, la xenofobia, la società autoritaria, il malaffare dei potenti? Per scoprirlo basta leggere questo romanzo.
- Collana: Fuori Collana
- ISBN: 9788822041685
- Anno: 2010
- Mese: ottobre
- Formato: 13 x 21 cm
- Pagine: 208
- Note: illustrato a colori
- Tag: Letteratura Romanzo
Costruito in forma di giallo, il romanzo è ambientato in un quartiere romano. I personaggi sono alcuni abitanti nativi, delle persone immigrate, due gattare, un veterinario polacco, un carabiniere atipico, un piccolo speculatore, una cricca di criminali prestigiosi e potenti, quattro cani e la colonia felina del quartiere. Un vecchio anarchico, erudito ed eccentrico, è l’alter ego della voce narrante, un’archeologa gattofila. Protagonista è il gatto Spelix: è lui che dipana la trama dell’omicidio, grazie al fiuto straordinario e all’abitudine di raccogliere oggetti da regalare alle sue protettrici. Spelix è un apologo, molto aderente alla realtà, sulle derive intolleranti e autoritarie della città e del Paese: il declino dell’amore e della protezione dei gatti va di pari passo con la crescita del disprezzo e dell’ostilità verso gli estranei e i diversi. In fondo è un’operetta morale sulla convivenza e il rispetto fra eguali e differenti. È anche un tentativo sperimentale di restituire le parlate delle persone comuni, soprattutto il romanesco degli immigrati.
Prologo - 1 Spelix e gli altri - 2 La minaccia - 3 Le due signore - 4 Mattia - 5 Il delitto - 6 Il colpevole - 7 L’isola incantata - 8 Zyg e Mezzacoda - 9 Il signor Errico - 10 Brahim - 11 Ciro - 12 Un po’ di filosofia - 13 Iqbal e Uddin - 14 Karima - 15 Una piccola frattura - 16 I cinesi - 17 L’arma del delitto - 18 La vittima - 19 La riabilitazione - 20 Dorine - 21 Claudietto - 22 Manuel - 23 Il perdente e il salvato - 24 La svolta - 25 Il maresciallo Augiello - 26 Hassan - 27 I ciarlatani - 28 Riti di passaggio - 29 Il sodalizio - 30 Il palazzinaro - 31 Er Ciriola tacque - Epilogo
Una notte mentre rincasavo con Jean-Claude lo vidi, Spelix, che si faceva accarezzare da qualcuno. Rimasi sbalordita: era un privilegio che credevo concedesse solo a me. Perfino dalle due signore si faceva sfiorare raramente.
Solo quando fummo vicini lo riconoscemmo: era Claudio, detto Claudietto per via della statura ben inferiore alla media, ma più spesso chiamato Claudié, uno che abitava al quarto piano della nostra stessa scala. Tornava dal ristorante di Trastevere dove lavorava come cameriere e procacciatore di clienti, come buttadentro, insomma.
Era un tipo affettuoso ed espansivo, perfino troppo estroverso, un po’ esibizionista. Nelle ore libere dal lavoro suonava la chitarra elettrica e collezionava vecchi dischi di rocker famosi. Quando poteva, frequentava un centro sociale dalle parti di Cinecittà, per partecipare ai corsi di teatro e di graffitismo, meno alle iniziative politiche, che gli interessavano poco. Faceva parte di un gruppo di graffitisti di nazionalità diverse che, se ricordo bene, si chiamava Bastardi crew.
Claudietto ci salutò con calore e quando mi chinai a mia volta per accarezzare Spelix, ci fece:
− Ahò, ’sto gatto è ’na favola, me fa ammattì! Voi sapete c’a mme ’e bbestie me vann’a faciolo, ma ’sto tipo qua è davero speciale. Guasi tutte ’e notti s’apposta a ’a svortata de dove arivo pe’ fasse alliscià. E v’o devo dì: a me ’sta cosa me rilassa, me fa passà ’a stracchezza e l’incazzatura der lavoro.
Alcune volte l’avevo visto al lavoro in quel ristorante carissimo, frequentato da notabili, vedette televisive e turisti danarosi. Passando da quelle parti, mi era capitato di sorprenderlo all’opera: stava sulla soglia appostato come un falco, pronto a ghermire il turista malcapitato.
Agitava il tovagliolo bianco con l’abilità di uno sbandieratore e faceva numeri da clown per attirare i clienti.
Certe volte indossava qualcuno dei suoi travestimenti bizzarri: un tutù da ballerina di chiffon rosa o un chimono nero da samurai, con spade rosse e draghi verdi ricamati.
Aveva doti istrioniche notevoli e una capacità straordinaria d’imitare qualsiasi voce e parlata. Avrebbe voluto fare l’attore comico, ci aveva confidato, ma si doveva accontentare «de fà er buffone pe’ ’sti mignatta de mmerda. Se no, chi ’a sente mi madre?».
(…) Per arrotondare le sue entrate, delle volte la domenica mattina faceva il centurione fra il Colosseo e i Fori Imperiali. In due o tre occasioni mi era capitato d’incontrarlo in quella zona. Piccolo com’era, sembrava scomparire sotto l’armatura di latta dorata e l’elmo col pennacchio rosso. Ma gli riusciva così naturale fare il gigione che attirava comunque i turisti. Per ragioni opposte, erano i bambini più piccoli e gli adulti più alti e corpulenti che lo preferivano accanto per la classica foto col Colosseo alle spalle: i primi perché così si sentivano meno piccoli, i secondi per senso dell’umorismo o forse per il gusto sadico di umiliarlo.
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