Quaderni di storia 75/2012
- ISBN: 9788822025753
- Anno: 2012
- Mese: gennaio-giugno
Semestrale
Luciano Canfora, Il problema delle «varianti d’autore» come architrave della Storia della tradizione di Giorgio Pasquali
David Bidussa, Ancora illusioni. Note sulla ricerca storica di Ruggiero Romano
Raimondo Luraghi, La guerra civile americana (1860-1865) come rivoluzione nazionalista
Sara José Ramos González, Il Venezuela (Nuove frontiere della filologia classica /3)
Manfred Lossau, Virgilio petrarchizzato. Zu Ungarettis Recitativo di Palinuro
Luigi-Alberto Sanchi, L’enquête de Budé sur l’économie antique
Luca Iori, Thomas Hobbes traduttore di Tucidide. Gli Eight Bookes of the Peloponnesian Warre e le prime tracce di un pensiero hobbesiano sulla paura
Ugo Piacentini, Zum Freiheitsbegriff eines Dichters aus Corduba
Rosario Pintaudi, Grenfell-Hunt e la papirologia in Italia
Luigi Lehnus, Postille inedite di Paul Maas ai primi due libri degli Aitia di Callimaco
Owen Hodkinson, Authority and Tradition in Philostratus’ Heroikos (Nunzio Bianchi)
Magda Martini - Thomas Schaarschmift (a cura di), Riflessioni sulla DDR. Prospettive internazionali e interdi-sciplinari vent’anni dopo (Gherardo Ugolini)
Luciano Canfora, L’Artemidoro «sconosciuto» di Michael Rathmann
4. Conclusioni
C’è in quelle pagine il nucleo della Geschichte der Philologie (1921). In entrambi i casi, nelle pagine finali dell’Einleitung e nella Geschichte der Philologie, Wilamowitz invera, per così dire, l’indissolubilità – affermata pochi anni dopo da Pasquali e negata ostinatamente da Maas – tra storia della tradizione e critica del testo. Anche la Geschichte infatti si conclude con pagine esemplari e di grande profondità sulla critica del testo. Ed è appunto in quelle pagine finali che si legge l’ammonimento, splendido e perentorio: «Non dovrebbe toccare i testi chi non sa seguire il cammino che dal manoscritto conservato risale a quello dell’autore» (p. 76 = p. 145 della traduzione einaudiana a cura di Fausto Codino).
Errava Maas quando, nel secondo un po’ nervoso paragrafo del Rückblick 1956, cercava di trarre dalla sua – oltre Cobet – anche Wilamowitz nella lotta contro lo studio dei «deteriores». Basti pensare all’ironia con cui Wilamowitz trattava la smania cobetiana di limitare al minimo la base documentaria dell’edizione critica: «Es würde sehr erfreulich sein, wenn das Geschäft der recensio wirklich so einfach wäre». E concludeva osservando che per i grandi autori (Erodoto, Tucidide, Demostene, Eschine, Senofonte, Aristotele Fisica «e purtroppo anche la Retorica») «wir auf eine eklektische Kritik angewiesen sind».
Nelle pagine finali della Geschichte der Philologie il punto di partenza per tale summa della critica testuale è, con scelta assai felice, il panorama sommario delle «deduzioni ormai possibili sulla base delle nuove scoperte», cioè della grande quantità di papiri riaffiorati tra fine Ottocento e i primi decenni del Novecento. «Abbiamo – scrive – resti di libri per tutti i periodi dalla fine del IV secolo in poi, e conosciamo la forma che le tragedie avevano quando arrivarono alla Biblioteca di Alessandria. Ammiriamo la tecnica libraria che lì fu portata alla perfezione, la seguiamo di generazione in generazione, osserviamo l’imbarbarimento dell’ortografia e la riforma di Erodiano, la decadenza nella fabbricazione del papiro e il passaggio dal rotolo al codice. Manoscritti di grammatici presentano l’aggiunta di varianti erudite; appaiono scolî marginali che sono estratti da commenti indipendenti». E ancora: «La storia del testo, che si è aggiunta alla recensio e all’emendatio, significa ancora di più». E non è privo di significato, se ricordiamo quanto si è detto al principio intorno al primo capitolo della Storia pasqualiana, che Wilamowitz concluda questa sua densa «Textkritik» con una riflessione sulla critica del testo del Nuovo Testamento. Quel testo – scrive – «restò indifeso per secoli, poi fu fissato nel complesso, ma non senza subire violenze e per fortuna senza che fossero cancellate del tutto le tracce di altre redazioni. L’apporto delle traduzioni e delle citazioni più antiche fa di questa storia del testo, nonostante tutte le differenze, il miglior parallelo di quella di Omero, e dimostra in modo particolarmente istruttivo come il metodo del Lachmann sia rettificato dalla storia del testo».
La matrice comune è dunque in Wilamowitz. Dal suo modello discende anche Schwartz, con la sua straordinaria capacità di infrangere la sciocca separazione tra le due filologie (una sui testi cristiani, l’altra sui testi ‘profani’) con il risultato di una vera compenetrazione metodologica delle due esperienze. E Pasquali, proprio in quanto si pone nella scia di Schwartz, – e ‘gioca’ Schwartz contro Maas – ne è ben consapevole. Ma anche qui un importante precedente remoto era in un primario esponente della «critique française», intendo dire il Casaubon critico degli Annali ecclesiastici di Baronio.
Come s’è appena visto, a ragion veduta, e con mente davvero moderna, Wilamowitz apriva la sua «Textkritik» assumendo come punto di partenza quanto abbiamo imparato dalle scoperte di papiri. Torniamo, a questo punto, per un momento, al Dodecalogo pasqualiano posto al principio della Storia della tradizione, ed in particolare al decimo punto di quel ‘prontuario’: «I papiri per la tradizione greca, le citazioni antiche per la latina, mostrano che già nell’antichità per autori molto letti ogni esemplare rappresenta in qualche modo un’edizione particolare, cioè una miscela ogni volta variamente graduata di varianti preesistenti, genuine e spurie. Già nell’antichità era incominciato il processo di contaminazione, di conguagliamento fra tradizioni diverse, il processo che talvolta sbocca nella formazione di una vulgata. Tali condizioni spiegano come papiri che restituiscono in un punto la lezione genuina oscurata nella tradizione medievale, coincidano poi con rami e ramoscelli di essa in corruttele particolari» (p. XVIII). È significativo come queste parole trovino riscontro in un punto cruciale del saggio di B.A. Van Groningen Ekdosis, il cui focus è il modo antico dell’edizione e che perciò sfocia inevitabilmente nella questione delle varianti antiche (e d’autore): «Il convient se rappeler une fois de plus que chaque copie manuscrite est unique, présentant ses propres caractéristiques, ses propres écarts de l’original, intentionnels ou accidentels, et qu’elle n’est pas le représentant d’un groupe d’exemplaires identiques».
Una volta preso atto di questa che è l’effettiva realtà della tradizione antica, si ridimensionano il senso e la portata della ‘dommatica’ maasiana. La quale prescinde totalmente dal quadro concreto e dalle implicazioni ‘stemmatiche’ che discendono dal constatare che, sin dal principio, ogni esemplare antico fu di fatto una “edizione”. Pur concentrandosi di necessità sullo studio della fase terminale della tradizione (culminante, al più, in un presunto «archetipo» medievale di rilevanza storica assai modesta), la dommatica maasiana fa nondimeno spesso riferimento con singolare leggerezza all’«originale», quasi che esso sia da considerarsi press’a poco l’antecedente immediato dell’«archetipo»! Di qui il carattere utopistico, se non ingenuo, della frase di apertura della maasiana Textkritik: «compito della critica del testo è la restituzione di un testo che si avvicini il più possibile all’originale» (§ 1), cui tiene dietro (§ 8) uno “stemma” nel quale recta via si discende dall’originale all’archetipo!
Ancora una volta meritoria appare dunque, anche sotto questo rispetto, l’impostazione storica della «critique française», onde felicemente Dain, nei Manuscrits, declassò il poco significante “archetipo” (quando davvero lo si può ricostruire) a «plus proche commun ancêtre de la tradition» e chiamò invece «archetipi» gli esemplari che ebbero davvero rilevanza storica: le edizioni tardo-antiche, e, prima ancora, le decisive sistemazioni alessandrine dei grandi autori.
Ma allora come non ricordare, conclusivamente, l’intrinsechezza che Wilamowitz ottantenne dichiarò verso tutta la cultura francese nel mirabile suo schizzo autobiografico stilato di getto in latino il 6 marzo 1928? «Eodem fere tempore – scrive – et iam prius (inde fere ab 80) Gallos, Voltaire, Diderot legere coepi et multa multum legi, a Rabelais ad Verlaine, quos cum recte aestimassem, in tenebras recessere Germani veteres, etiam Lessing». William M. Calder III, che ebbe il grande merito di pubblicare questo prezioso testo, a tratti sconvolgente, ha segnalato anche, nel commento a questa frase, che la descrizione del filologo schizzata da Wilamowitz nelle coeve Erinnerungen (p. 104 della seconda edizione: «Dazu muss der Kopf kühl sein, aber heisse Liebe im Herzen brennen») è ispirata ad un’analoga battuta di Diderot nel Paradoxe sur le comédien. Lo schizzo autobiografico è rilevatore anche per quel che riguarda l’apprezzamento profondo che Wilamowitz esprime per Spinoza. Una indagine approfondita di quel mirabile testo ci porterebbe lontano, e non può rientrare in questo intervento.