Medusa’s legend is rather archaic. This book tells the story. The adventure began with ancient and medieval artists and writers who invented a monster with a fatal glance. Thanks to a long tradition of mental and visual images, the belief of the snake woman flourished. Medusa has become the prototype of the sub-human woman and her metamorphosis have been everywhere in the premodern society’s picture of the female world: Echidna, Melusine, the Gorgons, the Amazons, Eva, the Basilisk, the poisonous Maid, the Catopleba and Sadako-Samara force the reader to question about “what never happened but has always existed”.
Angela Giallongo
The snake woman
Stories of an enigma from ancient times to XXI century
Prize Il paese delle donne & Donna Poesia 2013
The exciting epic of female hybrids, still near and present, narrates the conflictual emotions with the alterity.
- Series: Storia e civiltà
Subject: History
Year: 2013
Month: january
Format: 14,5 x 21,5 cm
Pages: 304
Introduzione - Medusa e le «cose che non accaddero mai ma che esistono da sempre» - 1. Che cosa insegna il mito? - Fra Gorgoni e gorgoneia - Venerabili mostri - Almeno dieci racconti greco-romani su Medusa… - Due passi con lo spauracchio, ovvero l’esatto contrario di una passeggiata - Metamorfosi - «Il mio nome è rosso» - L’antico sugo - A proposito di un aneddoto su un pannolino di Ipazia di Alessandria - «Due occhi ti feriscono, tre ti guariscono» - Nostre Signore dei serpenti - Fra le dee viventi... - ...e le dee del terrore - Medusa docet - Nel pozzo della scienza - Nel mondo di Telemaco. Una digressione sui ricordi universitari - Sul palco dell’infamia: american nightmare - A wonder Gorgon - 2. Che brutta faccia - Specchi della storia - Da repulsiva a impotente - Chi è l’Altro? - Stereotipi - Hybrida - Iconografie di «pensieri luttuosi» - La paura - Perché le donne mostro hanno successo nei film? - 3. Nel regime notturno dell’immaginario medievale - Il caos della notte - «Una diavoleria simile a…» - «Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto» - Il serpente, personificazione dell’alterità - Donne e serpenti - «Non sai di essere Eva?» - Immonda - La Pulzella velenosa - Istruzioni visive - Insegnamenti a corte - L’atelier femminile - Ildegarda di Bingen - Trotula de Ruggiero - Christine de Pizan - «Una meravigliosa bellezza» - 4. L’attualità del passato - Infinite varietà - Cacciatori di teste - Arti gelide e serpentine - Bagliori mestruali - Conclusione
«Una diavoleria simile a…»
Come nelle vecchie storie, quelle del tardo XII secolo raccontavano, per la corte plantageneta di Enrico II, all’ombra della notte, di incantevoli ragazze, di eroi infoiati, di genitali strappati insieme agli occhi e di decapitazioni. Cioè di amore e di morte.
Nelle sue trame, Walter Map, scrittore ecclesiastico gallese, amico di santi e di re, sapeva esporre, all’insegna dell’arte dell’intrattenimento, eventi reali del passato e del presente: vicende di regni, imprese di sovrani e di sultani, gesta di principi, cavalieri, soldati, visioni fantastiche di santi, monaci, abati e pellegrini, concedendo avventure fuori dall’ordinario a belle dame fatte di pietra, senz’anima e senza nome. Sono infatti rari i casi in cui riferisce i nomi dei suoi esiziali personaggi muliebri, che seducevano e spaventavano a un tempo. Con i suoi racconti scritti in latino, avvolti dallo stesso gusto bizzarro dell’orrore e humour macabro di Poe, dipingeva con un sorrisino compiaciuto situazioni ricche di allusioni sadiche. Combinava cannibalismo (nella storiadi Atreo, Tieste e Pelope), vampirismo, sessualità e violenza. Così sul mito della Gorgone faceva soffiare inaspettatamente il minaccioso vento freddo della necrofilia.
L’episodio riguarda la passione di un eccellente calzolaio di Costantinopoli innamoratosi di un’affascinante giovane aristocratica, accolta perdutamente dal suo cuore insieme al «funesto veleno che lo fece deperire». Risucchiato dal vortice del desiderio, l’artigiano si spinse prepotentemente a cambiare vita, nel tentativo di superare il disprezzo e il rifiuto del padre della ragazza per la sua condizione servile. Diventò con successo un soldato, guadagnandosi la fama di nobile cavaliere, poi pirata per «conquistarsi con la forza ciò che l’oscurità dei natali e la mancanza di proprietà gli negavano».
Durante le sue conquiste, venuto a sapere della morte dell’amata, si affrettò a ritornare per assistere alle esequie e per soddisfare quel piacere che gli era stato negato: «La notte successiva all’inumazione da solo scavò nel tumulo e si unì carnalmente alla morta come se fosse viva».
Come uno che non conosce null’altro che il proprio desiderio e non ha altro pensiero che soddisfarlo, si «risollevò dalla morta» quando «udì una voce intimargli di tornare in quello stesso posto al tempo del parto, per portarsi via quello che aveva generato. Obbedì al comando, tornò a tempo debito, e scoperta la tomba ricevette dalla morta una testa umana, con la raccomandazione di non mostrarla se non ai nemici di cui voleva la morte». L’ex calzolaio allora «depose il capo in uno scrigno con chiusure ermetiche e confidando in esso lasciò il mare per fare irruzioni sulla terraferma; a qualunque città o villaggio si avvicinasse minaccioso, poneva innanzi quel prodigioso volto di Gorgone, e i poveretti rimanevano pietrificati, vedendo una diavoleria simile a Medusa».
A partire da questo momento la ricchezza e la vittoria furono così propizie al proprietario dello scrigno da fargli sposare la figlia dell’imperatore di Costantinopoli. Costei, incuriosita dai segreti del cofanetto, viene alla fine a conoscenza della verità; distrugge allora lo «scellerato» marito con la sua stessa trappola, facendo poi precipitare, fuori dalla terraferma, le due mostruosità negli ignoti profondi abissi del mare. Per sfuggire ai lutti delle due calamità, le onde si arcuarono, schiumarono, salirono in alto verso il cielo, si avvolsero in flutti vertiginosi, scroscianti e le seppellirono nei vortici e nei gorghi di Cariddi in modo da far assorbire «tutto quello che l’immane grandezza del mare può gettarvi». La forza spropositata della testa della Medusa rammentava catastrofi inimmaginabili. E i flussi possenti di Cariddi rafforzavano l’angosciante impressione che suscitava il legame tra il femminile ed eventi liquidi turpi, oscuri e orribili.
Su tutto gravava il puzzo nauseante di un cadavere violato, di vite infrante, di cinte murarie distrutte, di rovine di villaggi e di castelli e di tombe profanate. Non si era mai visto prima nulla di simile: una testa di Gorgone partorita dalla copulazione con il cadavere di una donna inumata da diversi giorni, in stato di spaventosa putrefazione. L’oscuro evento, che sembra senza senso, era forse obbediente all’astrusa norma in forza della quale la sessualità e la morte si abbracciano in un’unica, eccitante, distruttiva e oscura convulsione.
Questo amore post mortem con una donna immobile, priva di sugo, di spirito e con sentore di carogna rivela il profilo dell’aggressore, imprigionato, come direbbe Fromm, dalla cocciuta, violenta passione di trarre godimento anche dalla fine dell’essere vivente; una figura sovrastata inoltre da un sistema di credenze che aveva negativamente associato, per il pubblico della corte e per il folklore anglossassone, le insidie delle donne serpente e drago (Melusina) e della viscida testa della Gorgone all’acqua, alla notte e ai rettili.
Walter Map, per rendere ancora più minaccioso l’orrore, rinserrava il volto gorgonesco con serpenti notturni, immobili e compatti, ma sempre animati «dalla sola volontà di fare del male». Altrove faceva ben spalancare le due nere pupille come tizzoni ardenti, contenute in ogni occhio, alle perfide matrone scite che attiravano, nel mondo delle ombre, gli uomini. Ripescava anche la riprovevole estasi, sotto i raggi gelidi della luna, delle donne danzanti: perché è nella strana densità delle tenebre che Walter Map sentiva «il ripugnante strisciare di vermi, vipere, serpenti e di ogni specie di rettili».
Nella sequela di immagini notturne, riappare il groviglio necrofilo. Dentro le carni appassite della moglie appena sepolta sprofonda un altro cavaliere che mette fine alle difficoltà della morte con una lunga stirpe di figli e nipoti.
La sua opera era talmente riuscita che i nuovi esemplari, ci informa a malincuore Map, furono chiamati filii mortuae.
Come i lettori degli Svaghi di corte, restiamo tutti a bocca aperta di fronte alle creature del regno della notte, dove eroici cavalieri mostravano con forza e violenza le loro oscure fantasie sulla donna perfetta. Una massa posticcia, immota, molle, silenziosa come una statua, deformata dall’assenza totale di desideri e avvolta dalle tenebre.
«Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto»
Dante, durante la sua discesa nella funerea voragine infernale, è minacciato dalle Furie che, con rinnovata prepotenza, invocano Medusa per farlo seppellire dall’immobile freddezza della pietra.
La loro irruzione si imprime subito con violenza in uno scenario aspro: inquietanti paludi, torbide fanghiglie, fiumi ribollenti, ostili abissi, scarpate selvagge, mura inaccessibili, torri fumanti, sabbioni infuocati, desolanti ghiacciai (il lago Cocito) che impietriscono già da soli gli sguardi.
Il poeta è disorientato da questo mondo sconosciuto dall’«aura morta», «nera» e dall’«aere senza stelle» (Inferno, III, v. 9), sorpreso dalla paura, inorridito dall’incancellabile buia catastrofe che si abbatte sui peccatori e dall’informe forza delle figure bestiali. All’ingresso della città di Dite, sprofondata nell’oscurità e nel fetore della palude stigia, sulla torre rovente di un fosco rossore, appaiono le tre Furie schierate: sanguinanti, agitate dalla rabbia mentre si graffiano e si percuotono il petto come gli iracondi della sottostante palude o come donne ai funerali.
Sono «cinte con idre verdissime» e con un groviglio di rettili avvinghiati attorno alle tempie ondeggianti di «serpentelli e ceraste» (serpenti cornuti). In loro si respira il senso del baratro. Le livide Megera (l’odio), Aletto (la senza respiro) e Tisifone (la voce della rabbia) coagulano nel IX canto dell’Inferno una notte di dolore, un’afflizione senza speranza: mentre scagliano per aria un’onda selvaggia di applausi, illuminano la spettrale e spenta atmosfera del forte fascio di luce delle loro «verdissime» bisce, le velenose idre che vibrano insieme ad altri rettili, annunciando crisi, sofferenze, discordie, angosce e rimorsi.
Dante scosso, sconvolto si rifugia in Virgilio. E in questo primo movimento riconosce in loro corpi e atteggiamenti femminili (Inferno, IX, vv. 34-63).
La tensione sale drammaticamente con grandioso effetto quando le sgradevoli voci urlanti delle Furie attaccano gli intrusi urlando: «Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto» (Inferno, IX, v. 52).
A questo punto Virgilio intima a Dante di non guardare e con atto partecipe copre lui stesso le pupille del suo allievo, mormorando: «Volgiti in dietro e tien lo viso chiuso; ché se il Gorgòn si mostra e tu ’l vedessi, nulla sarebbe del tornar mai suso» (Inferno, IX, vv. 55-57). Virgilio aveva già mostrato e nominato una per una le tre Furie, facendo provare a Dante una grande paura, ma ora Virgilio deve frenargli l’impulso di fissare Medusa. Più di questo non poteva fare. Non poteva esserci nulla di più grave e crudele del fatto che quegli occhi, fissando Medusa, si fossero induriti respirando la disperazione. E Medusa, nelle sembianze mascoline del Gorgone, faceva risuonare meglio l’oscuro terrore. L’improvvisa comparsa della sua testa, vibrante di caos rettile, racchiudeva in sé l’essenza del pericolo.
Giacché fissarla avrebbe spento per sempre ogni pensiero, ogni desiderio di conoscenza e di salvezza. Dentro quegli occhi si presentiva l’incancellabile bruttura del peccato. Se lei si fosse impadronita con lo sguardo dei pensieri e dei sentimenti del poeta, gli avrebbe portato via tutti i suoi beni spirituali. Ogni sforzo cosciente di superare il male, ogni volontà di redenzione, ogni possibilità di raggiungere l’armonia. Impossibile esprimere meglio di così la paura del male, la cui forza avrebbe cancellato ogni pensiero buono e vitale.
Per gli insegnamenti dottrinali medievali non era accettabile sottomettersi volontariamente alla disperazione: chi ce l’aveva nel cuore entrava automaticamente nella schiera dei peccatori più incalliti e non avrebbe mai più alzato gli occhi al cielo.
Il colto Dante condivide intimamente questo principio.
Lo rivela Virgilio (70 a.C.-19 a.C.), sua guida spirituale, nel gesto di chiudergli gli occhi in modo da sottrarlo a quel profondo sconvolgimento interiore che avrebbe sacrificato il libero arbitrio. Il sensibile gesto da magister era scaturito dal desiderio di proteggere le esperienze intellettuali dell’allievo da quella sorta di ottusa cecità spirituale nella quale Medusa lo avrebbe precipitato.
Publio Virgilio Marone sapeva per personale esperienza che Enea, discendendo negli inferi, aveva fatto i conti con il furore folle delle figlie della notte, grondanti di serpi e di sangue, con il gran serpe di Lerna dalle sette teste e con la raccapricciante comparsa delle Gorgoni (Eneide, VI, vv. 415-425).
La cultura letteraria latina si era già impossessata, in età augustea, della mitologia greca e dei suoi distruttivi mostri femminili. Le Lamie, le Scille, le Arpie, le Gorgoni furono comunque diligentemente assunte anche dagli scrittori ecclesiastici. Fecero così parte dei beni di una civiltà in cui la teoria aristotelica sulla imperfezione femminile venne convertita in quella di un essere inferiore portato al male, quindi fedele al diavolo.
Dante, nel momento più difficile della sua vita interiore, si abbandonò alla lotta fra sé e il mostro dalle mille teste. E con la sua bravura, le Erinni e Medusa toccarono l’apice della natura diabolica. Dante voleva far provare la singolare esperienza della fusione dell’umano con il bestiale, voleva svelare la natura selvaggia e distruttiva delle Furie accordandola ai rettili, contrassegno dell’indistruttibile comunità del male. Con lo stesso stato d’animo le voleva accompagnate dal dolore, dalla morte, dai dissidi, dalle preoccupazioni.
Nell’ambito delle più raffinate esperienze formative, maturate tra il XIII e il XIV secolo, Dante aveva letto e studiato, nelle scuole e nelle biblioteche, Omero, Ovidio, Virgilio e aveva conosciuto l’autorità di Aristotele. La sua anima e la sua vigile coscienza furono profondamente impressionate dall’insolente audacia di quegli esseri che, paghi dei loro poteri visivi, si specchiavano, fiancheggiati dai serpenti, in scottanti affari diabolici.
february 2014 | Corriere Romagna |
december 2013 | Archeo |
november 2013 | Il Resto del Carlino |
april 2013 | IT.PAPERBLOG.COM |
march 2013 | Il Corriere del Sud |
march 2013 | Studi sulla formazione |
february 2013 | STORIEVENEZIANE |