The book does not represent just a picture of the most important US elections of the last forty years. It is also a live story of the deep dynamics that changed the word «hope» in a political fact of epochal dimensions, described through the account of an electoral process lasted twenty months.
Barack Obama’s success is certainly due to his extraordinary personal talent. Anyway, the United States wanted him very deeply since they needed him. The United States needed to end a liberalistic cycle inaugurated by Ronald Reagan thirty years ago, in order to open a new one, closer to that dream that generates it and that, in spite of all, continues to be the main feature of their own identity.
Why the United States, conservative by nature, have chosen to change direction so radically? Why a country that is still so deeply racist, managed to identify itself with a black man, whose second name, moreover, is Hussein? Why does it happen today? From the exact contextualization of the speeches and candidates, emerges the «new» United States and the historical reasons of their change, starting from Obama’s Speech on racism in Philadelphia, worthy of the highest tradition of the United States most important men, from Abraham Lincoln, to Franklin Delano Roosevelt. This is the starting point of the new American cycle, the Barack Obama’s New Deal. Destined to radiate all over the world.
Luciano Clerico
Barack Obama
How and why the United States have chosen a black man at the White House
preface by Ferruccio de Bortoli
The United States election campaign, from the candidature to the Precidency. Here there are all Barack Obama’s speeches, from the one in Philadelphia about human race until the last one held on November 4th after the election day.
- Series: Nuova Biblioteca Dedalo
Subject: Politics
Year: 2008
Month: november
Format: 14 x 21 cm
Pages: 272
Prefazione di Ferruccio de Bortoli - Introduzione - 1. Barack Hussein Obama - Le radici - Il padre - La madre - In Indonesia - Alle Hawaii - In America: Los Angeles, New York, Chicago - La famiglia - La politica - 2. Michelle, la roccia - La famiglia - La scuola - Il lavoro - La campagna elettorale - La famiglia viene prima - 3. John Sidney McCain - In Vietnam - In politica - 4. Cindy McCain, la Lady Diana dell’Arizona - La scuola - La famiglia - L’American Voluntary Medical Team - In campagna elettorale - 5. L’America prima del voto - La strage del Virginia Tech - L’esecuzione di Newark - Le origini? Il Far West - L’emulazione corre sul video: l’effetto You Tube - La strage di Omaha - Colorado Springs: si spara in chiesa per conto di Dio - Qualcosa si muove? - Le armi sono un diritto - 6. Il fattore Iraq - Bush perde i pezzi - Riecco Bin Laden - Vogliamo a casa i soldati - 7. Una poltrona per sedici - Come si vota - Calendario nel caos - Una campagna da un miliardo di dollari - I sedici candidati - Repubblicani: manca il vero leader - Gli otto candidati del GOP - Rudolph Giuliani - Mitt Romney - Fred Thompson - Gli otto Democratici - Hillary Clinton - 8. L’inizio in Iowa e nel New Hampshire - Ed è subito «votantonio votantonio» - Iowa, palestra di democrazia - La vigilia - Il voto: l’origine dei caucus - I risultati - Il primo thank you di Barack Obama - New Hampshire: elettori duri e puri - Le lacrime di Hillary - La vigilia repubblicana - Hillary, notte da cardiopalma con lieto fine - Effetto lacrime - 9. Michigan, Nevada, South Carolina, Florida - Michigan - I risultati - Nevada - I risultati - South Carolina - Comincia la guerra tra Hillary e Obama - Tra i Repubblicani è corsa a tre - Florida, Rudy addio - Per Obama arrivano i Kennedy - 10. Il super martedì - California: va al voto la terra di Zorro - New York, il voto dell’altra America - Massachusetts, vota l’America più politica - Illinois: si vota tra mais, gangster e centrali nucleari - La vigilia tra i Repubblicani - La vigilia tra i Democratici - Il voto - 11. In Texas il discorso sull’American dream - Yes We Can diventa un dato politico - Houston: il nuovo sogno americano - Il discorso sull’American dream - La svolta anche nei media - 12. In Pennsylvania il discorso sul razzismo - I sermoni infuocati di Jeremiah Wright - Il discorso sul razzismo - 13. La resa di Hillary Clinton - Hillary furiosa - McCain sotto attacco - Il mesto tramonto di Bill Clinton - Anche Angelina Jolie in campagna elettorale - I risultati - Hillary: «Vergogna Barack!» - Clinton addio, finisce un’èra - Indiana e North Carolina, la svolta - Il «5 maggio» dei Clinton - West Virginia: Hillary trionfa, ma è il canto del cigno - John Edwards sceglie: «Io sto con Obama» - Povero Edwards, non l’avesse mai fatto - 14. Il nominee - L’addio di Hillary Clinton - Il viaggio in Afghanistan, Medio Oriente ed Europa - Il discorso di Berlino - 15. Le Convention - A Denver i Democratici - Ted Kennedy - Michelle Obama - Il nome del vicepresidente arriva via sms - Joe Biden - Barack Obama - Il discorso di investitura - A Minneapolis e Saint Paul i Repubblicani - Sarah Palin - John McCain - 16. Paura a Wall Street - Effetto Sarah - Economia, torna l’ombra della grande depressione - Il primo faccia a faccia: Oxford, Mississippi - La Borsa trema - 17. I dibattiti: duelli in tv all’ultimo sangue - I dibattiti - Il duello Biden-Palin - Il duello Obama-McCain: la campagna si fa cattiva - L’ultimo faccia a faccia - 18. Il voto del 4 novembre 2008 - Il sì di Colin Powell - Al voto due Americhe - La storica notte del 4 novembre 2008 - Le ragioni di una vittoria che ha cambiato la Storia - John McCain, il discorso dello sconfitto - Barack Obama - Il discorso di Chicago del presidente Barack Obama - Ringraziamenti
Prefazione
di Ferruccio de Bortoli
Noi europei, così incapaci di immaginare novità politiche con la forza innovativa e la carica di passione della candidatura del senatore di Chicago, abbiamo guardato alle elezioni americane e al fenomeno Obama con due differenti sentimenti. Il primo distaccato («Può succedere solo lì, vediamo come va a finire»); il secondo partecipato («Se accade lì, può succedere anche da noi»). Nel primo caso si è manifestata una curiosità di sapore vagamente cinematografico, retaggio degli stereotipi del nostro Dopoguerra. Un atteggiamento, questo sì di ammirazione, ma anche di disincantata lontananza: troppa differenza con la nostra politica così compassata e spenta nelle idee. Il secondo sentimento, quello più acceso e appassionato, ha intravisto nel leader democratico un modello esportabile. L’esperimento di una sinistra moderata, liberale, universale, sulla scia delle suggestioni storiche di Kennedy e di Clinton. La resurrezione del concetto di uguaglianza, troppo schiacciato negli anni della globalizzazione sull’altare della libertà. Obama ha cambiato la politica americana, ha testimoniato la capacità di rinnovamento della società, ma resta un unicum, e non solo nel colore della pelle. Un leader prodotto da una democrazia nella quale le differenze di classe sono profonde, ma dove la mobilità sociale è così elevata da attenuare il senso di un’ingiustizia che la crisi finanziaria ha disvelato nella sua quotidiana brutalità. Un personaggio straordinario ma, mi sbaglierò, irripetibile, specialmente in Europa. E soprattutto un moderato, pronto a smentire da presidente le idee del candidato.
Nel libro di Luciano Clerico, che ricostruisce il lungo cammino di queste elezioni, vi è un passaggio assai significativo. Il discorso di Houston del febbraio scorso, nel quale Obama dà corpo politico alla «speranza», citata in un’inedita trinità con l’amore e l’educazione (la famiglia non c’è, ma è compresa e difesa meglio in tutti e tre i valori), è esemplare nel descrivere la tensione morale dell’immigrato americano, specie di colore. Un cittadino orgoglioso e inappagato, ingenuo, venato da un fermento pionieristico e impegnato a ricompensare i suoi avi dei sacrifici da loro sostenuti (il nonno che combattè con Patton, la nonna rimasta a casa a curare i figli e nello stesso tempo a lavorare in una fabbrica bellica) per dare speranza alle successive generazioni. La storia americana vista nell’epocale e incessante «abbandono di terre lontane» per conquistare nuovi orizzonti, riscattare antiche povertà e affermare diritti calpestati. «Houston, il momento è venuto e questo è il nostro tempo».
Il candidato democratico è stato scelto nella bizantina e defatigante pratica delle primarie. Il sistema del caucus può apparire anacronistico e ingenuo, ma racchiude tutta l’essenza della democrazia dei padri pellegrini. Una democrazia che tuttavia funziona, specialmente nelle ultime elezioni, con un investimento di capitale che fa fortemente dubitare sulle reali possibilità che il figlio di un popolo possa realmente aspirare alla Casa Bianca così come può ambire a un posto ad Harvard. Obama, figlio di un immigrato dell’Africa più profonda, che lo ha lasciato solo con la madre all’età di due anni, ha fatto entrambe le cose. E bene. In fondo ha interpretato, nell’accezione americana classica e perfino oleografica, la parte dell’immigrato che si integra ed emerge in quel crogiolo fecondo di etnie e culture che ha sempre contraddistinto il Paese. Nulla più. Dopotutto, di esempi così ce ne sono stati a migliaia, in tutti i campi. Ma lui l’ha fatto in modo non solo nuovo ma persino eccentrico. Da illustrazione di Norman Rockwell.
Obama è un oratore semplice ma raffinato, capace di trasmettere sentimenti profondi, consapevole di un fascino che fa vi brare di emozioni l’uditorio. Ispirato come Martin Luther King, solare come John Kennedy, trascinante come Bruce Spring steen. Il ragazzo della porta accanto con la moglie della porta accanto. Ma non il Sidney Poitier di Indovina chi viene a cena? Obama è riuscito a far dimenticare il colore della propria pelle, anzi ha tolto quel colore dalla campagna elettorale; non ne ha mai fatto un punto di forza e mai si è trovato nella condizione di sentirlo come un limite. Già questo è stato in sé un piccolo capolavoro: la costruzione di un’immagine rassicurante anche nei confronti della classe media bianca del Midwest che, fino a pochi anni fa, non avrebbe nemmeno accettato l’ipotesi di un challenger nero. Il suo, anche dopo le elezioni di novembre, è il messaggio che il sogno americano continua, che la volontà può tutto («Yes, we can»); che nessuno è prigioniero del proprio destino, come lo furono probabilmente il padre e molti suoi parenti e amici. E se può riuscire a un nero afro-americano, perché non a un latino, a un coreano, a un indiano? Questo devono aver pensato i molti che hanno votato per lui pur avendo origini completamente diverse. Il talento, il sacrificio, la famiglia, la fede possono tutto. Possono portare alla Casa Bianca anche il figlio dell’ultimo immigrato, magari clandestino braccato nel confine lacerato e sanguinoso del Messico, come quelli descritti da Cormak McCarthy, in paesaggi metafora di una società spietata e violenta, o arrivato sulle coste della Florida su un canotto in fuga da Cuba o l’insignificante protagonista di Everyman di Philip Roth. O meglio come Ashley Baia, la ragazza di cui ha parlato Barack a Filadelfia nel marzo scorso, la cui mamma si ammalò di cancro quando aveva nove anni e perse lavoro e assistenza sanitaria. Ashley è bianca e faceva parte dello staff del candidato. Chissà ora cosa farà? Questo è il fenomeno Obama, il messaggio di speranza che ha irradiato anche quell’Europa che lo ha accolto trionfalmente, in una Berlino in festa, come l’erede di Kennedy. Con un entusiasmo così grande da apparire persino finto, irreale. Come accade per quegli atti unici di cui non è prevista né replica né adattamento europeo.
4 novembre 2008
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