As we can understand a work of art? As we can understand the mental pain? How we can accept the mystery of the sacred? The speeches and the logic we have, oriented to measure the efficiency and usefulness, leave unanswered all these questions and can not help the conflicts of the human mind. The "useless talks" by contrast, do not pursue the goal of a practical solution, but produce thoughts and emotions, creating a new mental space in which to reconstitute the emotional relationship between human being and world, between self and other. The "useless talks" clear the mental space from the constraints imposed by social conformity and ethics of success, opening to a new vision, where our dimension is subtracted from the calculation of utility; they are gratuitous speechs, in which can not be distinguished who is the giver and the receiver, experiencing the full presence of the meeting and rediscovering the complexity of the relationship between human beings and the Universe.
In praise of useless talk
The word gratuitous
Change our view of the world, experiencing the full presence of the meeting, rediscovering the complexity of the unified relationship between humans and the Universe.
- Series: Strumenti / Scenari
Subject: Philosophy
Year: 2010
Month: may
Format: 14 x 21 cm
Pages: 160
Presentazione - Elogio del discorso inutile - La logica del dispendio - Il linguaggio dell’eccedenza – 1. Il sapere della psiche - Le vie del sapere e la critica al riduzionismo scientifico - Discorso scientifico e discorsi «alternativi» - Lo spazio delle pratiche attive nella comprensione del mondo (e dell’Altro) - Il sapere dell’anima: il sogno e il preconscio - Il preconscio e il linguaggio dell’opera d’arte - Il linguaggio metaforico: l’insorgenza della coscienza e il sapere metafisico - Il soggetto della conoscenza, tra necessità e volontà – 2. Il discorso psicoanalitico: resistenza della psiche - Qualche data e qualche ricordo per ricostruire un percorso - Una rivoluzione disciplinare per cambiare - lo sguardo sul mondo - L’inconscio sovversivo e il dominio sull’eccedenza - Fine della dialettica e funzionalismo dei nuovi miti - Individuo, pensiero e realtà - La malattia dell’epoca – 3. Il discorso filosofico: ricerca dell’originario - La nascita dell’interrogazione - Filosofia e verità - Finitezza umana e infinito desiderio - La poesia e lo scandalo del contraddirsi - Eros, esperienza e conoscenza – 4. Il discorso religioso: il mistero, l’evento, l’amore - La morte di Dio e la solitudine umana - Fenomenologia del discorso religioso - L’Evento: parola incarnata - La potenza trasformatrice del desiderio - L’incontro come beatitudine - La beatitudine e la piena presenza - Bibliografia
Ho scoperto che parte dei sentimenti che proiettavo sugli altri erano, in realtà, «pezzi di me», che non riuscivano a stare dentro una rappresentazione coerente della mia persona.
Ho scoperto quanto fosse potente la violenza e quanto infantile il narcisismo che mi faceva dipendere totalmente dal giudizio degli altri.
Ho capito che vivevo dentro un Universo simbolico, che attiene al campo delle relazioni affettive, in cui ero immerso e dal quale ero condizionato.
Ho capito che il male di vivere e la melanconia appartengono a strati profondi degli esseri umani e che la produzione degli spazi simbolici è il modo in cui, individualmente e collettivamente, cerchiamo di trasformare una parte delle ombre che si addensano dentro di noi.
Potrebbe, allora, apparire paradossale la scelta di collocare il discorso psicoanalitico tra i discorsi inutili ma, a parte l’ironia implicita in questa scelta, ho maturato, nel corso della mia vita e delle mie esperienze, la profonda convinzione che il discorso psicoanalitico non risponda ai canoni della ragione calcolante e che non ci siano risultati pratici causalmente imputabili a una qualche modificazione fisiobiologica. Insomma, quando si parla dell’esperienza analitica come di una cura per risolvere una malattia, è come se si parlasse dell’amore come rimedio all’eccessiva pulsione sessuale.
Penso che l’analisi possa determinare un cambiamento nella forma d’essere di una persona, nella sua visione del mondo e nella sua capacità di accettare il susseguirsi di sentimenti, desideri ed emozioni nella propria anima. Per questo credo che la psicoanalisi tenda a realizzare una comprensione del mondo e di se stessi, non già ad apprendere tecniche comportamentali utili ad agire in una determinata situazione.
Il discorso psicoanalitico somiglia al discorso religioso e a quello filosofico, perché attiene al problema del senso della vita e non alla spiegazione causale degli avvenimenti.
L’esperienza analitica mi ha certamente fatto sentire più libero e i miei studi e la mia attività ne hanno risentito profondamente: per molti versi, ho smesso di essere un giurista e ho cercato di trasformare il mio sguardo sul mondo, avviando un percorso di ricerca sullo stato sociale, al Centro per la riforma dello Stato, creatosi attorno a Pietro Ingrao, insieme a un gruppo di lavoro che perseguiva lo sforzo collettivo di pensare insieme per comprendere i processi in atto. Il mio lavoro suscitava spesso polemiche, per il modo in cui anticipavo i temi dell’esplosione del neoliberismo e della fine della solidarietà sociale, che poi divennero di stringente attualità.
In quegli anni, Pietro Ingrao mi invogliò a riflettere sulla crisi del comunismo a partire dalle sue possibili spiegazioni «non economiche», insieme a Romano Ledda, studioso di politica estera.
Così, mi trovai a confronto con le categorie psicoanalitiche messe in campo dalle scuole di psicologia sociale dell’est mitteleuropeo, che cercavano di affrontare diversamente i temi sociali, in un contesto che aveva perduto i riferimenti extraeconomici. La crisi era evidente ma non si poteva affrontare soltanto evidenziando «errori» e avanzando «correzioni»; ciò che appariva come una degenerazione era sintomo della rappresentazione della realtà, sia nel pensiero che nelle forme di società. Ritrovai, allora, la mia esperienza psicoanalitica: ripercorrere la «storia» come esperienza, in cui l’irrazionale non è irrazionale, ma è espressione di un’altra logica, che è una logica diversa ma non è una non-logica.
Nei «sotterranei» più reconditi degli esseri umani ci sono, infatti, molte più cose di quante non riesca a vederne la ragione illuministica.
Iniziavo a convincermi che la modernità avesse assunto una connotazione e un significato che la destinavano a risultati catastrofici e che la forma individualista, assunta dalla modernità meccanicista e atomizzata, potesse produrre soltanto l’alienazione totale dell’individuo e la sua inevitabile disponibilità a ogni forma di manipolazione psicologica e tecnologica.
La vicenda della fine del Pci, che seguì alla caduta del muro di Berlino, provocò dentro di me come lo spalancarsi di un vuoto terribile: un’intera comunità di affetti andava miseramente in pezzi ed esplodevano logiche settarie di chiusura e strumentalizzazione angoscianti. Provai a tornare dal dottor Lopez, ma non riuscivo a reggere la solitudine e l’ossessione di morte che mi soffocavano mentre stavo in albergo aspettando la seduta dell’indomani.
Decisi, allora, di andare in analisi da Riccardo Romano, che viveva e lavorava nella mia città. Furono mesi drammatici, in cui la mia principale ossessione era che il mio cervello si stesse fisicamente disfacendo e che il mio corpo fosse in via di decomposizione.
Dopo molti anni di analisi, si stabilì che era arrivata la conclusione di questa esperienza. Teoricamente significava che ero «guarito» dalla paralisi che mi aveva bloccato per mesi nel silenzio cupo e anaffettivo. In realtà, molti sintomi, e in particolare l’ansia di ritrovarmi nel vuoto, hanno continuato ad assillare le mie giornate e le mie notti. È totalmente cambiato, invece, il mio modo di rappresentarmi e di interpretare la mia storia.
L’appartenenza al Pci è stata per me una sorta di «supplenza simbolica», come direbbe Massimo Recalcati: il gruppo dirigente del partito era, per molti aspetti, fonte della mia identità e di riconoscimento reciproco, garante di una comunità, da abitare e vivere insieme ad altre compagne e altri compagni, con cui condividere la quotidianità in vista della grande attesa rivoluzione. La mia eccedenza sovversiva, il mio desiderio di realizzare la pienezza della creatività, oltre i parametri e gli standard delle istituzioni in cui ero costretto a vivere, trovavano nella prospettiva di una nuova società la via della sublimazione. Essere comunista significava rifiutare il codice borghese dell’adattamento ipocrita alle regole fissate dalle élite dominanti e, allo stesso tempo, non precipitare nel caos indistinto del ribellismo anarchico che ispirava un’impossibile liberazione di ogni società.
La forma del conflitto politico mi permetteva di gestire, in modo produttivo, il conflitto permanente fra il «programma della civiltà», che produce conformismo e omologazione, ipocrisia e adattamento, e il «programma dell’inconscio», del desiderio insaturabile, che muove ciascuno verso la ricerca di nuovi equilibri e nuove mete collettive. La conclusione dell’esperienza analitica mi restituì la consapevolezza di questo conflitto e la libertà di cercare altri modi e altre figure per rappresentarlo.
Infatti, credo che l’analisi restituisca, a chi ne fa l’esperienza, un’attitudine nuova a creare forme che lasciano emergere nuovi contenuti del desiderio del soggetto, nella sua irriducibile singolarità.
Trasformare la «forza» in «forma» è un modo per definire, in sintesi, l’esperienza analitica; unire la forza della pulsione alla forma di un’opera, è ciò che Freud definiva «mistero della sublimazione»:
Le possibilità di trasformazione che una psicoanalisi favorisce in un soggetto sono dunque molto distanti da ogni morale dell’adattamento al discorso stabilito e da ogni ideologia della liberazione dell’inconscio dai vincoli della Civiltà. Non c’è rinuncia alla forza per accomodarsi a una falsa integrazione nella forma sbiadita del senso comune e nemmeno c’è esaltazione puberale della forza contro ogni forma, vissuta sempre come alienante e repressiva. Piuttosto forza e forma devono poter trovare una nuova sintesi. È questa la vera posta in gioco di un’analisi.
Come afferma Recalcati, l’inconscio da produrre è volto più all’avvenire che al passato, è una forma ancora da inventare e realizzare.
Questo rende la pratica psicoanalitica simile a quella artistica:
Come non c’è un’ispirazione che precede il lavoro dell’artista e che contiene l’opera come se fosse già compiuta, perché l’ispirazione può sorgere solo dal lavoro – ed è per questo che ogni artista non può constatare ogni volta la diversità che separa l’opera realizzata da quella che aveva in mente di realizzare –, ebbene, allo stesso modo in un’analisi l’inconscio non è dato già in partenza, non è la perla custodita dalle difese del soggetto, ma un’occasione da produrre, un sogno da realizzare, un’invenzione, una spinta alla trasformazione. Questo significa che un’analisi non è solo il racconto biografico di ciò che è già avvenuto, non è il racconto di ciò che il soggetto sa già di se stesso, ma è la produzione di un nuovo sapere su di sé, è l’incontro del soggetto con ciò che di sé costituisce un mistero per se stesso. In questo senso essa è, se si vuole dire così, una esperienza di realizzazione del desiderio inconscio, ovvero una sua messa in forma inedita che punta a scardinare il peso mortifero della ripetizione.
Far emergere i significati inconsapevoli accanto a quelli dichiarati e mostrarne la connessione, in uno sguardo d’insieme capace di contenerli entrambi. Ancora Recalcati, riflettendo sulla vita e le opere di Van Gogh, sostiene che la mancata iscrizione dell’artista in un registro simbolico familiare gli avesse provocato un senso di vuoto profondo e di permanente inadeguatezza, che trovava compensazione nell’identificazione immaginaria con il Cristo e nella supplenza simbolica della ricerca della luce attraverso il giallo della pittura. Ciò non significa che la sua vita e la sua attività artistica fossero «non autentiche»: le compensazioni del vuoto esistenziale e della psicosi latente, che lo spingeva a produrre meravigliose opere d’arte, erano altrettanto autentiche delle fantasie di impotenza e di vuoto assoluto che tormentavano la sua anima.
La sua verità di artista è anche la sua verità di uomo, con il suo tragico vissuto. Lo sguardo psicoanalitico consente di attingere la gratuità «fine a se stessa» della comprensione dell’evento pittorico, fondando una comprensione antropologica che consente di rintracciare i vissuti più profondi.
La psicoanalisi parla di traumi, come se le aggressioni subite in passato fossero la causa degli attuali problemi del paziente. Eppure, partendo da un fatto traumatico, […] la vittima può considerare la propria vita come rovinata per sempre oppure può ricostruirsi con una forza mai avuta prima.
L’analisi, infatti, non produce alcun risultato pratico misurabile con i criteri della verificabilità empirica dei risultati di un’ipotesi scientifica; il suo percorso non è una guida per scegliere le azioni adeguate ai propri scopi, né un manuale per il buon comportamento socialmente accettato: è la restituzione al soggetto, alienato dal programma della civiltà, dell’autonomia e della libertà che aprono il suo sguardo alla comprensione della sua storia e alla rappresentazione del futuro del suo desiderio.
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Solo vedendo oltre il velo delle descrizioni intellettuali e aprendosi al mondo della significazione si può cercare di rispondere alle domande di senso sulla vita e sul tempo, si può comprendere che la verità non può essere percepita intellettualisticamente da un puro sapere logico, ma può essere soltanto vissuta esistenzialmente, in una situazione concreta.
Nella vita concreta, la verità è sempre assoluta, ma proprio per questo trascende sempre la situazione concreta. È una misteriosa sensazione di aderenza al mondo e di condivisione di affetti che si può solo provare, senza trasformarla in un concetto. La verità non ha niente a che vedere con i rimedi contro l’angoscia di morte o contro il terrore della finitezza, è una dimensione dell’esperienza che non si lascia scomporre nei suoi elementi analitici; una relazione di corrispondenza, non terminologica ma affettiva, tra ciò che si prova aprendosi verso l’esterno.
L’esperienza della «vita che si sa», per usare le suggestive parole di Maria Zambrano, è immanenza che si autotrascende per necessità, inscritta nel codice degli esseri umani; ma si rischia di smarrirla se la corazza dei concetti appare più appetibile per il quieto vivere dell’individuo conformista. Solo il recupero dell’intima connessione tra esperienza e pensiero può restituire dinamismo creativo a un’epoca divenuta incapace di pensare e di sentire. Non si tratta di contrapporre le ragioni dell’esistenza a quelle dell’intelletto, ma di ribadire che solo un intelletto incarnato in un corpo e una carne e un sangue capaci di pensarsi, possono generare nuovi pensieri e nuove rappresentazioni.
Se la filosofia, abbandonando il preteso monopolio sulla risoluzione dei problemi e sull’interpretazione del mondo, riconoscesse di essere storicamente parte della fenomenologia di una modernità in cui oscure potenze si sono combattute in nome di dio, della libertà, della ricchezza, del potere, forse lo sguardo filosofico potrebbe ridarsi senso e intraprendere nuovamente la via dell’interpretazione del mistero della vita. Per restituire la gratuità al pensiero filosofico è necessario cercare di capire, a partire dal rapporto tra antropologia e filosofia, quali spinte profonde abbiano provocato lo spostamento dalla domanda sulla vita al terreno astrattamente teoretico della pura ragione formale.
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