Dalla natura umana all’istituzione
La tesi di questo libro, poco condivisa dal sentire comune, ma affermata dal costruttivismo sociale, è che il sesso sia un prodotto storico, un’invenzione umana che traduce rapporti di dominio e si esprime in un tipo particolare di sistema di potere. Le sfere del corpo e del sesso sono state a lungo considerate dalle scienze umane e sociali come una dimensione privata e intima, sottratta al divenire della storia, dell’istituzione sociale e della discussione politica. Così, una certa fenomenologia del corpo ha preteso di rivelarne la dimensione eidetica, intesa come un in sé, un proprio che precede ogni produzione sociale e storica. Allo stesso modo, la psicoanalisi ha elaborato norme universali (il complesso di Edipo, l’ordine simbolico e talvolta perfino una comprensione biologizzante della pulsione) che pretendono di definire lo sviluppo psico-sessuale dell’individuo. In maniera analoga, benché ciò possa apparire a prima vista sorprendente, persino talune prospettive socio-antropologiche e giuridiche hanno posto al centro delle loro analisi la distinzione tra naturale e social-culturale, ma anche tra privato e pubblico, distinzione che non è stata senza conseguenze nell’ambito delle accese discussioni e decisioni politiche riguardanti i moderni cambiamenti socio-familiari.
Per chiarezza desidero precisare che questo libro non si richiama volutamente al femminismo storico italiano e non si inscrive nella continuità con il pensiero della differenza sessuale che questo incarna, soprattutto attraverso la Comunità filosofica femminile Diotima a Verona. Due parole per motivare questa presa di distanza: pur affermando la necessità di una pratica che conduca alla politicizzazione del sesso, il femminismo differenzialista non fa propria la lettura denaturalizzata del mondo e dei rapporti sociali che è per noi la sola possibile premessa di una visione politica laica, libera dal peso di ogni riferimento metafisico, da ogni appello a un presunto originario o, più generalmente, da ogni riferimento meta-storico. Che cos’è infatti questa «donna», questo «femminile» a cui il pensiero della differenza fa riferimento?
Si tratta di qualcosa che esiste prima dei rapporti sociali di potere propri del patriarcato e della sua organizzazione del mondo in dominatori e dominati? Insomma la differenza sessuale incarna un ordine ontologico, un senso in sé inscritto nelle cose oppure una configurazione universale dello psichismo umano? Un passo di Luisa Muraro ci sembra illustrare come la pratica di questo femminismo presupponga la pretesa di raggiungere un «senso vero dell’esperienza femminile». Questa pratica consiste infatti nel «risalire alle origini seguendo una genealogia femminile, così da trovarvi la fonte della propria forza originale, della propria originalità».
Gli accenti naturalistici del femminismo della differenza si fanno ancora più forti nella produzione della psicoanalista Silvia Vegetti-Finzi che, in un testo pubblicato nel 1992, riprende il paradigma, già affermato da Freud, di una vicinanza originaria del femminile alla natura. Se così la relazione madre-figlia, come afferma lo stesso Freud, precede il linguaggio e il simbolico in quanto creazione storico-sociale, l’emancipazione femminile non potrà prescindere da un ripensamento del legame della donna con la natura. Si tratterebbe allora di riconoscere il ciclo biologico e il posto che, in esso, hanno le donne, al fine di elaborare una soggettività femminile capace di opporsi all’impresa maschile di dominio e di sfruttamento della natura. La via dell’emancipazione femminile passerebbe dunque, secondo la Vegetti-Finzi, per: Il compito di volgere al femminile il discorso sul femminile, cioè di avere il coraggio di ritrascrivere, ritradurre in un codice femminile (assumendo la soggettività femminile) il discorso che l’uomo ha elaborato su di noi e con il quale ci siamo così profondamente identificate.
Siamo al nodo di questo mio libro che ha per obiettivo proprio la ricerca di un senso originario delle cose, l’idea che esistano modelli universali cui richiamarsi, fatta propria da chi postula una differenza intima, ontologica, essenziale e persino simbolica della donna. Questa differenza è invece solo e soltanto il prodotto della storia ispirata dalle logiche del patriarcato e dalla violenza della dominazione maschile. Quando si reclama il diritto alla differenza, afferma la sociologa francese Colette Guillaumin, da una prospettiva apertamente anti-naturalista, non si tiene conto del fatto che nessuno vorrà negarla, questa differenza, ai gruppi dominati, in quanto essa è il marchio stesso dello sfruttamento.
«Reclamare la differenza come qualcosa di mirabile significa accettare la perennità del rapporto di sfruttamento. Significa pensare, a nostra volta, in termini di eternità».
Nel corso di questo saggio, riprenderemo il pensiero di quelle femministe materialiste che affermano che i gruppi sociali non sono identità originarie, naturali o comunque precedenti l’organizzazione istituita, ma il prodotto di rapporti storici di potere e che il sesso, come la razza, deve essere considerato «come un marchio biologizzato che segnala e stigmatizza una “categoria alterizzata”». In Italia, come del resto negli Stati Uniti, il femminismo materialista francese è pressoché sconosciuto. Il cosiddetto French Feminism è identificato esclusivamente con le posizioni di Luce Irigaray, di Julia Kristeva e di Hélène Cixous che sono fautrici di un pensiero differenzialista ispirato a una rielaborazione della psicoanalisi lacaniana.
Nel femminismo differenzialista manca, a nostro avviso, un’analisi compiuta della dominazione maschile, cioè la consapevolezza del fatto che è proprio del potere il qualificare come differente l’altro/a, il/la dominato/a. Com’è possibile infatti sostituire all’ordine simbolico patriarcale ciò che viene chiamato l’ordine simbolico della madre (genealogia femminile) se tale passaggio non tocca in profondità i rapporti effettivi di potere?
Mi riferisco alla diversità, stabilita dalla stessa Muraro, tra ordine simbolico e ordine sociale. Una diversità che impedisce di vedere come l’ordine simbolico, centrato sulla differenza dei sessi, incarni, di per sé, l’apparato discorsivo e di sapere insito nel patriarcato in quanto insieme di rapporti sociali di sesso. Se l’ordine simbolico della differenza costituisce la dimensione discorsiva, linguistica e di sapere propria di una cultura, esso sostiene, veicola ed è al contempo l’espressione di un dispositivo di potere, di una certa strutturazione della trama delle relazioni sociali10. In breve, l’ordine simbolico centrato sulla differenza non sfugge all’ordinamento patriarcale.
Non a caso, forse, il differenzialismo rifiuta di far proprie le rivendicazioni di eguaglianza di diritti e di parità affermate dalla corrente del femminismo materialista e radicale, ritenendo che esse portano a cancellare la specificità di quella differenza femminile ritenuta centrale. Alla base del rifiuto della rivendicazione di eguaglianza vi è dunque il timore dell’omologazione, il timore che, attraverso le pratiche emancipatorie, le donne siano costrette ad adeguarsi ai modelli maschili vigenti. Ma questo timore non ha ragion d’essere, come ha giustamente mostrato la critica di Christine Delphy; la paura dell’indifferenziazione vuole evitare:
Che tutti si allineino al modello maschile attuale. Sarebbe, si dice spesso, il prezzo da pagare per l’eguaglianza, un prezzo troppo alto. Questa paura proviene da una concezione statica, dunque essenzialista, degli uomini e delle donne, corollario della credenza secondo la quale la gerarchia sarebbe in qualche modo sovrapposta a questa dicotomia essenziale.
Ma, nella prospettiva del genere, questa paura è semplicemente incomprensibile.
Se le donne fossero uguali agli uomini, gli uomini non sarebbero più eguali a se stessi. Perché allora le donne dovrebbero farsi simili agli uomini in ciò che essi avrebbero cessato di essere?.
Sarebbe infatti impossibile assomigliare agli uomini in quanto dominatori e violenti dal momento in cui sono stati eliminati i pilastri stessi dell’ordine della dominazione e della sopraffazione.
Una volta soppressa una della due categorie – dominatori/dominati –, è la logica stessa della dominazione, che sottende l’ordine patriarcale, a essere come tale eliminata.
A questo punto si impongono alcune domande. Perché l’Italia ha storicamente prodotto in prevalenza un femminismo della differenza?
Perché la nozione di differenza, in quanto effetto di rapporti di dominazione, è restata così a lungo un impensato e forse un impensabile? Perché in questa prospettiva il genere non figura se non come espressione linguistica che si fonda su una differenza di sesso predata e non come quell’apparato di potere che pone e stabilisce la differenza?. L’Italia sembra pagare, anche in questo caso, l’alto prezzo della presenza invadente del Vaticano e del potere della Chiesa Cattolica che limita ogni forma di pensiero critico, portatore di una visione denaturalizzata, costringendo gran parte dello stesso femminismo a una visione teologico-politica del mondo.
Finisce qui almeno per il momento il mio incipit polemico. Si cercherà d’ora in poi di disegnare le diverse forme in cui si esprime la naturalizzazione dell’umano per smascherarne la portata, non solo teorica, ma soprattutto sociale e politica. Beninteso, tali forme di naturalizzazione non si riportano tutte a quel riduzionismo biologico e cognitivo che oggi si estende innegabilmente sempre più dall’ambito delle neuroscienze a quello delle scienze umane e sociali. Tra queste diverse espressioni di una lettura naturalizzata dell’umano, della sua vita corporea, sessuale e persino socio-affettiva o familiare, includiamo ogni tentativo di sottrarre queste stesse sfere al divenire politico, ai mutamenti sociali e storici dell’istituzione.
Si tratterà allora, ogni volta, di rovesciare le pretese di certezza avanzate da queste prospettive. Passeremo, in questo modo, attraverso la fenomenologia del corpo, ridefinita come fenomenologia dell’opacità, per indicarne lo scacco nella pretesa di pervenire a un’auto-donazione del senso. Analizzeremo, seppur in breve, il riduzionismo neuroscientifico, per denunciarne il rilancio della nozione di natura umana. Attraverseremo, quindi, la teoria freudiana della sessualità per rovesciarne la dimensione ancora biologizzante in una lettura defunzionalizzata della pulsione. Infine, cercheremo di sovvertire quel granitico monolite che è l’ordine simbolico, dietro al quale si trincerano oggi quelle posizioni conservatrici che vorrebbero frenare i cambiamenti sociali. Particolarmente quei cambiamenti che investono sempre più l’ordine sessuale che fissa i rapporti di potere tra i sessi e struttura l’ordine familiare centrato sul primato della legge fallica e paterna.
Il ricorso alla naturalizzazione e all’essenzializzazione delle differenze non risponde proprio alla logica politica della dominazione, così come ci insegnano recentemente gli studi di genere e post-coloniali?
Se non esiste un senso univoco, immediato e universalmente dato, se la nozione di natura umana, cara alla tradizione metafisica e reinvestita dalle attuali neuroscienze, si rivela come priva di valore, quella sfera del senso, entro la quale l’umano si muove, ci apparirà ben più incerta, senza garanzie, problematica. Essa non è infatti manifestazione di un ordine trascendente e immutabile, ma il prodotto di una creazione umana, una produzione della storia e delle istituzioni, sempre anche attraversate da rapporti di potere, da gerarchie e interessi che si tratterà di volta in volta di ritrovare.
In queste pagine si avverte una duplice tensione: quella che lega la riflessione sull’istituzione storico-sociale, propria di Cornelius Castoriadis, e quella che mette in luce le logiche dei rapporti di potere, delle forme di dominazione e di esclusione elaborate dal filone foucaultiano degli studi di genere e degli studi post-coloniali. Attraverso questi molteplici riferimenti, cercheremo quindi di mettere a confronto queste due tradizioni – castoriadiana e foucaultiana – che fino ad ora sono rimaste spesso separate, ma il cui confronto ci appare essenziale per l’elaborazione di una critica sociale radicale.
La nostra corporeità, così come noi ne abbiamo esperienza, non precede il processo della sua materializzazione, cioè la sua produzione attraverso la trama simbolica delle significazioni sociali e storiche, di regole e norme, pratiche ed espressioni culturali che la costituiscono e la producono come umana. In questa direzione, discuteremo l’idea di base naturale che non è da intendere come un prima rispetto alla produzione sociale: in quanto in sé inaccessibile, poiché non trasparente e immediatamente data, essa è incessantemente elaborata e persino prodotta dalle forme culturali e linguistiche, dalle pratiche discorsive e normative, cioè dalla storia. In questo senso, come afferma chiaramente la filosofa americana Judith Butler, la materia stessa del nostro corpo è storica, deposito di sedimentazioni dei discorsi e delle pratiche che di volta in volta l’hanno istituita.
Più in generale, mostrare che il corpo non è subordinato a un senso primario e naturale che esso dovrebbe riprodurre fedelmente significa affermare che ogni scarto o differenza rispetto a questo «modello» supposto originario non è riconducibile a uno scacco, a una forma devalorizzata di esistenza in quanto contraria ai dettami della natura umana. Ciò cui siamo ogni volta confrontati è piuttosto una delle svariate modulazioni e possibilità non riducibili a un’identità prima, è una produzione o copia senza modello o, per dirlo con la Butler, «un’imitazione senza originale».
La nozione di genere introdotta dai Gender Studies americani, ma anche dal femminismo materialista francese ci sembra a questo proposito di primaria importanza. In quanto non fondato su una presunta anteriorità ontologica e naturale del sesso, essa ci appare come l’esempio di ciò che intendiamo per denaturalizzazione.
In questo senso, il genere è proprio una produzione senza originario, una categoria critica che permette di leggere i rapporti di potere istituiti come rapporti non necessari e aperti a possibili contestazioni e trasformazioni. Non si tratta di riprendere semplicemente la versione corrente della teoria della performance come se essa fosse l’espressione di un soggetto volontaristico e individualistico capace di modificare il genere a suo piacimento quasi come si indossa ogni giorno un abito diverso. Ciò che intendiamo elaborare è una nozione di performatività come avvenimento storico e temporale, dunque come atto socialmente istitutito e istituente che forgia e plasma quelle differenze che venivano prima considerate come stabili, essenziali e originarie.
Benché esso agisca sul piano del linguaggio, il performativo veicola pratiche normative e rapporti di forza.
In questo senso, possiamo parlare di un’esplosione del soggetto storico del femminismo, cioè del fatto che esso non può essere circoscritto a una qualche differenza femminile chiusa in se stessa, alla figura quasi ipostatizzata di un «significante Donna» inteso come una realtà in sé, appartata rispetto al problema politico posto oggi sempre più dalle altre minoranze, da tutti quei gruppi resi subalterni e discriminati in funzione di criteri di sessualità, di razzializzazione o di classe sociale.
Solo considerando questa condizione denaturalizzata dell’esistenza umana e del suo essere corporeo, già fin dall’inizio implicato in un mondo di significati sociali, linguistici e culturali, possiamo comprendere il valore della creazione immaginaria. Essa non conosce strade pre-tracciate, modelli eterni e immutabili ai quali attenersi nell’impeto incessante e sempre innovatore del suo produrre. Questo è anche il senso dell’istituzione in quanto cammino sempre aperto e senza garanzie, poiché si costruisce proprio mentre lo si percorre.
Se noi cerchiamo di allontanarci da ogni visione essenzialista e naturalista del corpo e dell’umano, la nostra riflessione non giunge al suo termine se la corporeità, sottratta all’ordine naturale, è poi assegnata a un ordine simbolico concepito come trascendente e metastorico. Il gesto che mira a denaturalizzare e a de-ontologizzare il corpo non può realizzarsi senza sottoporre a critica anche la sfera dei significati, l’ordine simbolico appunto, al quale il corpo denaturalizzato è riassegnato.
Come risignificare allora questa sfera simbolica non più come una struttura universale e permanente ma come una realtà contingente e mutevole, aperta alle svariate possibilità di trasformazione che la storia e il movimento stesso dell’istituzione potranno imprimerle?
Si tratta di dare alla politica, in quanto creazione sociale, produzione di nuove norme, deliberazione e contestazione, un ruolo di primaria importanza per definire lo statuto stesso dell’umano e della sua corporeità. La recente politicizzazione delle questioni legate alla sfera corporea, sessuale e familire (dall’evoluzione dei rapporti socio-familiari e di genere, alle nuove forme di legame parentale e di filiazione, dall’affermazione dei diritti sessuali e (non) riproduttivi alle possibilità aperte dalla procreazione medicalmente assistita) mostra l’irruzione dirompente sulla scena pubblica di quella sfera fino a poco tempo fa considerata come privata, sfera dell’intimo indipendente e avulsa dai cambiamenti della storia e dalle sue molteplici variazioni. Anzi, proprio sul terreno di queste questioni, alle quali il panorama socio-politico italiano si affaccia ancora timidamente ma non senza controversie e sussulti, si gioca oggi la tenuta stessa della democrazia e della laicità, intese come mancanza di ogni riferimento trascendente e sovrasociale, di ogni garanzia ultima che dovrebbe guidare e orientare le decisioni collettive. Se la sfera corporea e sessuale costituiva – e costituisce ancora in parte – l’ultima frontiera di una visione naturalizzata o comunque sacralizzata dell’umano, di un ordine considerato come ontologicamente estraneo alla contingenza delle vicende politiche, oggi questa sfera diviene sempre più oggetto di dibattito, di negoziazioni e di deliberazioni collettive, diviene cioè parte di quell’orizzonte della doxa che non conosce verità stabili e predefinite.
Il concetto di democrazia sessuale utilizzato dal sociologo francese Eric Fassin ci aiuterà infine a precisare le poste in gioco politiche della denaturalizzazione e di una concezione della corporeità che la sottragga alla pretesa di accedere a un senso ultimo e immediato. Come vedremo, con questo termine si intende «l’estensione del dominio democratico, con la politicizzazione crescente delle questioni di genere e di sessualità che rivelano e incoraggiano le molteplici controversie pubbliche attuali» mostrando che questi ambiti non si sottraggono alle tensioni e alle trasformazioni che attraversano la sfera sociale.