La luce intensa della lampada colpì la piccola scatolettatrasparente e attraversò la finissima polvere d’argento in sospensione,incendiandola di bagliori. Sul lato opposto, allineatoad angolo retto con il raggio luminoso incidente, ilmicroscopio raccolse quei bagliori focalizzandoli su una strisciadi carta millimetrata sostenuta dal supporto metallicoa cui Ehrenhaft l’aveva fissata con cura. Il tutto sembravauna costruzione instabile: un sistema di specchi e lenti convogliavala luce della lampada in un percorso che raggiungevala faccia scoperta della scatoletta e, sotto il tavolo, ilmicroscopio montato verticalmente proiettava l’immagine– la stessa che avrebbe colto l’occhio umano guardando attraversol’oculare – sulla carta millimetrata destinata a rivelarla.
Quando un granello di polvere d’argento entrò nelcampo ottico del microscopio, sul foglio apparve un puntonero che saltellò come una pulce ed Ehrenhaft, radioso, loseguì portandosi vicinissimo al foglio, quasi fosse convintoche, se avesse agito con sufficiente destrezza, avrebbe potutoacchiapparlo.
La pulce saltò di quadretto in quadretto, veloce e imprevedibile,evitando la cattura, e infine scomparve un attimoprima che un’altra entrasse sul lato opposto di quellache era diventata una pista da circo. Anche quel punto neroeffettuò lo stesso numero, inaspettatamente scortato da uncompare, quindi i due si scontrarono ed Ehrenhaft si ritrassesorpreso. Ma sapeva benissimo che sul foglio apparivano leproiezioni di movimenti solo in apparenza piani; in realtàavvenivano nello spazio, perciò non si poteva sapere se ipuntini fossero l’immagine di due grani in movimento a livellidiversi oppure se la collisione fosse avvenuta davvero.
Il tremolio browniano sembrava aver contagiato anchelui: si diresse verso la porta per poi ritornare al tavolo, cercareil quaderno di laboratorio sulla scrivania, tornare all’esperimento,rimettersi a cercare la matita, scarabocchiareuna data. Solo dopo aver cozzato a destra e a sinistra sicalmò, prese posto alla scrivania per fare uno schizzo precisodi ciò che aveva costruito e riassumere quanto osservato,descrivendo le prime impressioni in un paio di frasi. Il sistemaescogitato per studiare il moto browniano pareva funzionaremeglio di ogni previsione.
Nelle settimane seguenti Ehrenhaft mantenne un mutismoinflessibile nell’attesa di essere certo del fatto suo; l’ideadi come si dovesse fare scienza e del rigore proprio al metodoscientifico erano già ben radicati nel giovane ricercatoreviennese.
Anche a von Lang non disse che poche parole in rispostaalle sue insistenti domande sull’esperimento. Da docentenon era più obbligato a riferire del proprio lavoro di ricerca,ma la ragione che lo trattenne non fu quella, e nemmeno lavolontà di escludere ogni possibile errore. Vedeva il vecchioprofessore seduto in ufficio, con la barba che sfiorava la scrivania,e si faceva violenza per non fermarsi, entrare, annunciarei suoi progressi, come a un padre che aspetta, purnon alzando lo sguardo, che il figlio di cui è fiero giunga a recarglila buona notizia. Indugiava pregustando il momentoin cui avrebbe potuto mostrargli il lavoro compiuto nella suatotalità, lasciando accumulare la fiducia su cui sapeva dipoter contare e che per riflesso lo colmava di ottimismo.
Approntò una coperta sul pavimento, in modo da potersistendere comodamente sotto il pesante tavolo. Sistemòun cronometro di precisione a fianco della striscia di cartamillimetrata per marcare a intervalli regolari, con una piccolacroce a lapis, la posizione corrente della pulce nera,proiezione del granello in agitazione, tracciando poi ognivolta un segmento dal punto precedente al successivo.
Dopo qualche minuto, la polvere d’argento in lenta cadutasi depositava sul fondo. Allora Ehrenhaft si alzava, la estraeva aspirandola con una pompa prima di iniettare aria pulitae una quantità fresca di materiale, poi si nascondeva di nuovosotto il tavolo e ricominciava da capo.
Sui fogli quadrettati che si accumulavano, la successionedi crocette e segmenti rettilinei disegnava un insieme confusodi trattini, specchio di quei sussulti in tutte le direzioni,imprevedibili guizzi, inattesi scarti laterali che von Langaveva osservato solo qualche mese prima.
Quei tracciati contenevano la risposta alla domanda cheaveva reso insonni le notti di tanti illustri pensatori: l’atomoesiste? È oggetto, cosa, realtà? La lunghezza di quei segmenti,misurata accuratamente con un righello, moltiplicata per sestessa, addizionata e divisa per il numero complessivo dei segmenti,poi messa sotto radice, era lo scarto quadratico medioche appariva nella formula di Einstein. E ogni volta cheEhrenhaft sommava, divideva, calcolava, scopriva quasi conspavento quanto l’astratta formula del giovane fisico teoricodi Berna, costruita semplicemente immaginando il movimentobrowniano – a occhi chiusi – coincidesse esattamentecon quanto lui vedeva nel microscopio – a occhi spalancati.
Quella corrispondenza fra pensiero e realtà, fra previsione eosservazione, era un responso affermativo.
Boltzmann sorrise appena, facendo scorrere fra le manii fogli con i risultati sperimentali che Ehrenhaft aveva posatosul tavolo. Conosceva quegli zig-zag, sapeva da annidella loro esistenza. Non fu né sorpreso né eccitato nel vederli,forse un po’ tediato dal tempo che c’era voluto affinchéun fisico sperimentale riuscisse a tracciarli, fiero di averscoperto l’alfabeto sconosciuto di una lingua che lui, invece,parlava.
Scrutò gli occhi di Ehrenhaft attraverso le spesse lentiche rendevano i suoi piccoli e lontani. Il giovane sembravain attesa di un incoraggiamento e Boltzmann si sentì obbligatoa dire: «Bravo».
Ma la questione della paternità della scoperta non lo interessava.
Era avvenuta a Vienna, come poteva avvenire inquel medesimo momento in qualsiasi altro posto.
Prese una matita e un pezzo di carta da un quaderno, disponendolidavanti a sé. Rovistò nel cassetto della scrivania.
Ne estrasse un compasso da una scatoletta di legnoannerita dall’uso, e con tranquilla precisione tracciò sul fogliodei cerchi concentrici egualmente spaziati. Alzò glispessi occhiali e fece segno a Ehrenhaft di sedersi al suofianco.
«Vede, prendiamo ogni segmento che ha disegnato e riportiamolocon la stessa lunghezza e la stessa direzione partendodal centro comune di questi cerchi». Boltzmanneffettuò personalmente una misura con squadra e compasso,riportando con scrupolo un segmento dal foglio quadrettatosull’altro. Ripeté l’operazione tre volte, per dare l’esempio,prima di spingere il foglio con i cerchi concentrici verso ilgiovane ricercatore.
«Vedrà che i punti si ripartiranno attorno al centrocome la rosa dei colpi sparati a un bersaglio lontano».
Ehrenhaft alzò le sopracciglia, con sguardo interrogativo.
«È un’altra maniera, più comoda della sua, di verificareche la ripartizione dei segmenti avvenga secondo una leggestatistica normale», spiegò Boltzmann. «Contando il numerodei punti compresi fra due cerchi consecutivi deve ottenereuna relazione precisa...», e riprese la matita per scrivere,su una pagina nuova del quaderno, un integrale estesosu un intervallo di corona circolare, iniziando un calcoloche forse per lui era semplicissimo, ma che Ehrenhaft stentavaa seguire. Boltzmann non disse nulla: calcolava, eracome se la matita parlasse per lui.
«Grazie professore», disse infine Ehrenhaft. «Se permettemi ritiro in laboratorio ad analizzare i dati come suggeriscelei». Si alzò rimettendo la sedia al suo posto eraccolse il materiale.
«Certo, arrivederci», rispose Boltzmann e, mentre seguivacon lo sguardo Ehrenhaft avviarsi alla porta, aggiunsesottovoce con amaro sarcasmo, in dialetto viennese: «Haforse visto degli atomi, caro collega?». Felix Ehrenhaft nonsentì la domanda, ma si affrettò a tornare in laboratorio perrifare con calma i calcoli teorici.