Civil passion and intellectual rigidity consolidate this collection of articles, updated and preceded by a long essay on racism that particularly examines the Italian case.
Even if the articles, written in the last decades for newspapers and periodicals, deal with different themes, all focus on the question of reality and the representations of migrants and minorities in the European societies. One of the merits of this collection is to show the steps and the development of the trends that today are totally evident: the political and media manipulation of news or cultural and religious diversities in order to obtain an anti-migrants and anti-gypsy effect; the demagogical use of security theme and scapegoat strategy; the reappearance of anti-Semitism forms; the wicked dialectics between the «democratic» racism and the racism without any adjective. The theme announced in the title coincides with the main thesis of the book: the institutional racism, that the media system strengthens, nourishes people’s xenophobia and uses it to legitimize itself. This vicious circle, useful to divert the public anxieties and gain consent, intends to reduce migrants and minorities to a «naked life».
Annamaria Rivera
Rules & fires
Metamorphosis of racism
Institutional racism nourishes people’s xenophobia and uses it to legitimize itself: a vicious circle typical of today’s Italy. The refusal of the migrants – if not as manpower –, the contempt of minorities and cultural difference draw the picture of a country on the brink of disaster.
- Series: Nuova Biblioteca Dedalo
Subject: Anthropology and Ethnology, Sociology
ISBN: 9788822063076
Year: 2009
Month: june
Format: 14 x 21 cm
Pages: 264
Introduzione - Lo sguardo distanziato - La critica dell’identità - Il processo di identificazione - Cultura e civiltà - L’anima dell’Europa - L’apertura dello sguardo - 1. Lo sguardo sul mito - Il rapimento divino - La donna dall’ampio sguardo - L’idea dell’Europa - L’innesto cristiano - La fondazione delle Università - Il progetto politico - Il mito della civiltà - Lo sguardo nostalgico - 2. Lo sguardo sul mondo - Il diritto di sguardo - Lo sguardo trascendentale - La cura dell’anima - La cultura dell’anima - La scuola dello stupore - Il declino dell’aura - La scomparsa del mondo - La crisi del senso - 3. Lo sguardo sulla città - Lo sguardo indignato - L’esigenza di giustizia - L’appello della libertà - Plus ultra - La perversione del movimento - Il rifiuto dell’Europa - Lo stesso capo - L’anamnesi dell’Europa - 4. Lo sguardo sull’anima - Lo sguardo riconoscente - L’uomo interiore - Lo specchio dello sguardo - Lo sguardo stellato - L’eclissi della distanza - Il riflesso di Narciso - L’uomo vuoto - La strizzata d’occhio - 5. L’accecamento dello sguardo - Il diritto della trascendenza - Il senso del senso - La decostruzione del senso - La distruzione dell’opera - Il paradosso delle culture - L’ombra dell’Europa - L’orizzonte plumbeo - Lo sguardo delle statue - Epilogo - «Non conoscono il cammino...» - Bibliografia
Il rimosso dell’immigrazione
e la socializzazione del rancore
Un’affermazione corrente vuole che a muovere il razzismo ordinario sia la paura – liquida o solida che sia – e che la strategia degli imprenditori politici e mediatici del razzismo miri a sollecitarla e nel contempo a placarla illusoriamente. Quest’ipotesi, pur essendo fondata, ha finito per diventare un luogo comune, talvolta messo al servizio di retoriche, anche benintenzionate, dietro le quali si può leggere un’interpretazione frusta – e all’acqua di rose, si potrebbe aggiungere – del razzismo, ridotto al pregiudizio, all’ignoranza, al sentimento di paura che sempre susciterebbe l’Altro. In una delle varianti di questo genere di retoriche, il pregiudizio, attribuito per lo più alla «gente comune», italiana e straniera, è rappresentato come una proprietà transitiva che andrebbe dal cittadino italiano del Nord fino al più reietto dei minoritari e viceversa, senza distinzione di potere, di ruoli, di status. La chiave per superarlo – si afferma inoltre con un eccesso di ottimismo – sarebbe «rompere la gabbia», «aprirsi agli altri», farsi guidare dalla curiosità «verso i diversi».
Benché colga uno dei caratteri del razzismo – cioè l’essere un fenomeno a geometria variabile, nel quale le vittime di ieri possono divenire i carnefici di oggi e le vittime di oggi possono condividere pregiudizi verso chi è ancora più in basso di loro nella scala del disprezzo – questa teoria spontanea è riduzionista: trascura le dimensioni economica, istituzionale, politica, mediatica del razzismo e sembra ignorare che esso è un sistema complesso, spesso subdolo, di disuguaglianze sociali, caratterizzato da forti scarti di potere fra i gruppi sociali coinvolti.
Non escludo che l’ignoranza sia un fattore da prendere in considerazione, ma in un senso ben diverso: se interpretata come non-possesso di strumenti e competenze per cogliere, decifrare e nominare correttamente fenomeni e fatti non contemplati dalla propria educazione e socializzazione, se intesa come convinzione di sapere, quando invece si sa nella forma del pre-giudizio, l’ignoranza può essere considerata una delle tante ragioni che contribuiscono a costituire una «comunità razzista» (nel caso di molti dirigenti, militanti e seguaci della Lega nord ciò è palese) (…).
Ma, ripeto, né l’ignoranza né il pregiudizio sono sufficienti a spiegare il razzismo. E quanto alla paura, a me sembra che i sentimenti prevalenti nella «comunità razzista» siano piuttosto la frustrazione, il risentimento, il rancore, la rabbia, alimentati dal senso d’incertezza e di frustrazione, d’impotenza e di perdita di fronte alle trasformazioni della società e alla crisi economica, sociale e identitaria. Se questo è vero, il circolo vizioso favorito dagli imprenditori politici e mediatici del razzismo produce ciò che, parafrasando Enzensberger41, potrebbe definirsi come socializzazione del rancore. E questo si indirizza verso chi, non previsto e non desiderato, è considerato come occupante abusivo del nostro territorio e della nostra nazione, entrambi, come ho detto, sempre più evanescenti. «Padroni a casa nostra» è lo slogan leghista che raccoglie, riassume e legittima questo sentimento.
La paura, del resto, non spiegherebbe l’indifferenza sociale – il lasciar morire – di fronte allo straniero inerme, bisognoso o vittima: un atteggiamento tutt’altro che raro, che sembra smentire un tratto ritenuto tipico del carattere nazionale, cioè l’inclinazione alla pietà, alla compassione, alla solidarietà. Di sicuro non sono compassionevoli – e neppure rispettose dei diritti umani – quelle norme, contenute nel disegno di legge approvato dal Senato il 5 febbraio 2009, che invitano implicitamente il personale sanitario a segnalare alla polizia gli immigrati «irregolari» che ricorrano alle cure sanitarie e che interdicono a chi non è in regola con il permesso di soggiorno di sposarsi e perfino di riconoscere i propri figli: lo stereotipo che rappresenta l’Italia come la patria del mammismo, del sentimentalismo e del buon cuore ne esce a pezzi (…).
Possiamo ipotizzare allora che dietro vi sia qualcosa di più generale e di più profondo della semplice indifferenza o insensibilità verso la sorte dell’estraneo: l’incapacità di confrontarsi con la vulnerabilità propria e comune a tutti i viventi, e dunque con la finitezza e la morte. I più vulnerabili – animali, estranei poveri, omosessuali, donne straniere – stanno in quella plaga simbolica dell’alterità indistinta che ispira alternativamente indifferenza – nel senso del lasciar morire – oppure aggressività – nel senso dell’annullare o del sopprimere.
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