Comunismi e comunisti
Dalle «svolte» di Togliatti e Stalin del 1944 al crollo del comunismo democratico
Se a quindici anni dal crollo dell'Urss si continua a discutere con accanimento su temi quali «Stalin e la guerra fredda», «lo stalinismo di Togliatti», «l'egemonia del Pci», è anche perché un'ondata di «carte» provenienti da archivi sin qui inaccessibili e documenti inediti, impongono di scavare più profondamente nella nostra storia.
- Collana: Strumenti / Scenari
- ISBN: 9788822053534
- Anno: 2005
- Mese: settembre
- Formato: 14 x 21 cm
- Pagine: 352
- Tag: Politica Politica internazionale Comunismo Stalin Pci
Ricerche originali all'interno del continente comunista e l'esame incrociato dei documenti da tempo a disposizione degli studiosi con quelli recenti, permettono all'autore di formulare nuove interpretazioni su momenti importanti della storia del comunismo, dal 1943-44 in poi. Vengono così individuati aspetti, sin qui ignorati o sottovalutati, dei rapporti tra l'Urss di Stalin e il comunismo occidentale, dello scontro all'interno del mondo sovietico, della politica - e della vita - di Togliatti, dal lungo e pressoché ignorato esilio a Ufa sino alle circostanze nelle quali viene steso il Memoriale di Yalta. In particolare, viene ricostruito il cammino dei comunisti italiani, con Berlinguer, verso lo «strappo» nei confronti dell'Urss. Che cosa ha però reso inevitabile, con la fine dell'Unione Sovietica, anche la fine di quello che si muoveva a Est come «dissenso» e a Ovest, in Italia, come «comunismo democratico»?
Introduzione - 1. La svolta di Mosca e quella di Salerno - L'incontro Stalin-Togliatti - Il «caso Togliatti» - Togliatti a Ufa - Verso l'Italia - A Mosca e a Napoli - Togliatti a Napoli - La svolta di Mosca - I messaggi di Bogomolov - 2. Le due conferenze di Szklarska Poreba - Due conferenze distinte - Contro Praga e Belgrado - Di fronte al Piano Marshall - Le critiche al Pcf e al Pci - Un ruolo di spartiacque - Che cosa è cambiato nell'Europa orientale - Che cosa è cambiato nel Pci e nel Pcf - La doppia missione di Pietro Secchia - Il rifiuto della prospettiva greca - Il potere di Stalin - Guerra fredda o pace armata - Guerra preventiva? - 3. Il giorno più lungo di Palmiro Togliatti - Mosca Suez Mosca - La lettera di Togliatti - La dichiarazione del governo sovietico - Dubbi e divisioni a Mosca - La «questione Di Vittorio» - Discussioni e lacerazioni nel Pci - Il dibattito su Stalin - L'intervista a «Nuovi argomenti» - Lo sciopero di Poznan - «Degenerazione» parola proibita - I primi segni della crisi generale - La lotta su due fronti - La risposta di Mosca - Stalinismo e non stalinismo di Togliatti - La «corresponsabilità» di Togliatti e del Pci - Il «no» a Stalin (e alla direzione del Pci) - Il Promemoria di Yalta preparava la rottura? - Il discorso segreto del novembre 1961 - Uomo di frontiera o della «doppia lealtà»? - 4. Il dissenso, il crollo dell'Urss, del Pci e del comunismo democratico - Da Trockij e Souvarine al Circolo Petöfi - Pro e contro la Biennale del dissenso - Il convegno di Firenze - Le radici e le ragioni di un incontro difficile - Iniziative, silenzi e cautele - Gli «aiuti» e i ricatti di Mosca - Un destino comune - Berlinguer, eurocomunismo e italcomunismo - Gorbacëv e l'illusione della riformabilità dell'Urss - Indice dei nomi - Abbreviazioni e sigle
Introduzione
Non parlerò qui, se non indirettamente o in modo casuale, del contenuto del libro. Penso che chi lo ha tra le mani abbia già scelto di leggerlo o almeno di sfogliarlo e non abbia bisogno di inviti particolari. Parlerò invece di due o tre questioni con le quali ho dovuto in qualche modo venire a contatto durante il lavoro di ricerca, e poi di stesura del testo, e che penso possano non essere prive di interesse per il lettore. La prima questione è quella che nasce da una constatazione. Il comunismo – come particolare e specifica forma di organizzazione sociale, economica e politica della vita, come proposta di soluzione dei problemi dell'uomo, dell'economia e della società, come movimento sociale e politico – è del tutto scomparso dopo aver per gran parte dominato il secolo da poco concluso. Né il perdurare qua e là nel mondo – a Cuba, nel Vietnam, nella Corea del Nord – di situazioni che vedono un partito comunista al governo, anzi al potere, può trarre in inganno. Non parlo della Cina che può forse aspirare a diventare, e in un futuro non troppo lontano, la massima potenza mondiale, continuando nel contempo a essere guidata dal Comitato centrale di un partito comunista, ma che dal processo storico aperto dall'Ottobre 1917 è certamente uscita da tempo. Se però si guarda al dibattito politico-culturale, se si passano in rassegna gli scaffali di una libreria o le pagine culturali dei giornali, è inevitabile chiedersi se il comunismo non sia tuttora qualcosa di vivo e vitale. Questo però – è necessario chiarire – prevalentemente, se non soltanto, in Italia. Non che negli altri paesi l'interesse per il comunismo sia scomparso. Esso però riguarda pressoché esclusivamente questioni del passato (Lenin e Stalin; dove e nato lo stalinismo; il «grande terrore»; comunismo e nazismo; lager e gulag; ecc. ecc.). Dei partiti comunisti nati al di là delle frontiere dell'ex Urss quasi non si parla. In Italia invece è come se il partito comunista fosse tuttora vivo e presente. Continuano ad uscire libri e studi su Gramsci, su Togliatti, su Berlinguer. Si fanno convegni, si discute con un accanimento singolare su temi quali «Lo stalinismo di Togliatti», «Il Pci e Mosca», «La svolta di Salerno», «L'egemonia culturale del Pci nell'Italia democristiana», «Togliatti e De Gasperi padri della Patria », «Il Pci nei documenti della Cia», «L'ultimo Berlinguer». E questo avviene nello stesso momento in cui non soltanto il Pci non c'è più da anni, ma non c'è nessun partito, nessuna forza politica che si presenti sulla scena come l'erede e il continuatore del partito di Gramsci, Togliatti e Berlinguer. Basti dire che il partito della Rifondazione comunista, alla ricerca di nuove «forze motrici» e di nuovi sbocchi, predica la «non violenza» e il pacifismo «senza se e senza ma» e che il Partito dei comunisti italiani parla oggi della Cuba di Fidel Castro come i prosovietici del Pci parlavano negli anni '50 della Bulgaria. Quanto ai Democratici di sinistra, che rappresentano la formazione maggiore nata dalle costole del Pci, alcuni dei suoi dirigenti appaiono impegnatissimi a sostenere che essi non erano comunisti neppure quando avevano in tasca la tessera con la falce e il martello (e in realtà questa loro posizione non è da respingere del tutto perché, in effetti, sono in molti a pensare – e chi scrive è tra questi – che il Pci si sia avviato dopo Togliatti su una strada che nella sostanza lo ha condotto a muoversi ai confini, se non al di fuori, del processo storico aperto dalla Russia nell'Ottobre 1917). Se dunque, nonostante la mancanza di eredi dichiarati, c'è nei confronti delle vicende dei comunisti italiani un'attenzione particolare, e in qualche modo separata e autonoma rispetto a quella riservata al comunismo sul piano mondiale, è evidentemente perché – al di là dei tentativi di una parte della destra di tenere in vita l'immagine del «pericolo comunista» – nella natura e nella storia del Pci c'è qualcosa che lo ha reso anomalo e diverso rispetto agli altri partiti «fratelli». «Diversità dunque. E qui – è bene chiarire – non parlo della «diversità» più volte orgogliosamente proclamata che avrebbe caratterizzato il Pci rispetto agli altri partiti democratici italiani, e del ruolo sostanzialmente negativo che, al di là degli elementi di verità in esso presenti, questo atteggiamento ha giocato. Parlo di quel che ha distinto il Pci dagli altri partiti comunisti. A questo punto dovrei arrestarmi perché proprio l'unicità del Pci, e della sua esperienza di partito del comunismo democratico, è uno dei temi di questo libro. Non prima però di aver osservato come la «diversità» del Pci, del tutto particolare e unica perché riguarda appunto la questione della democrazia vista come valore universale, possa essere di aiuto per individuare anche altre «diversità ». Per mettere cioè in luce – come nelle pagine che seguono ci si sforza di fare attraverso l'esame comparato del comportamento dei diversi partiti comunisti in una serie di momenti della storia comune – quel che ha reso diverso ciascun partito. L'osservazione tanto peregrina forse non è, perché l'idea di guardare al comunismo come a qualcosa di compatto, all'interno del quale non avrebbero potuto manifestarsi che «varianti nazionali» dello stesso corpo, è ancora assai diffusa anche in opere importanti, come – ad esempio – in quella di François Furet. Comunismi e comunisti, dunque. Ma, a proposito del Pci e della sua esperienza, devo fare i conti anche con una doppia e contraddittoria richiesta. Quella che viene da chi invita i comunisti sopravvissuti a uscire dal silenzio (e l'invito viene anche da un «grande vecchio», Vittorio Foa) e da chi, al contrario, trovando naturale e nient'affatto «assordante» il «silenzio dei comunisti», li invita a continuare a tacere per espiare fino in fondo la colpa di essere stati, più o meno consapevolmente, dapprima dalla parte dei carnefici dei Gulag e poi degli avversari del «Patto Atlantico». Certo è giusto e forse inevitabile che la storia di ieri sia scritta dalle generazioni di oggi e di domani. È sempre accaduto così (anche se certi cronisti greci, romani e fiorentini... E certe memorie di protagonisti e di testimoni... Ma le memorie – si veda quel che ha scritto, affrontando argomenti vicini a quelli qui toccati, Fiamma Lussana – non possono essere semplicisticamente considerate documenti storici). È però importante che a dare una mano a quei pochi «vecchi» – penso ad esempio a Giorgio Bocca e a Mario Pirani – che testardamente continuano a battersi per buttar via un po' del fango che viene gettato da tempo su uomini ed eventi della battaglia antifascista, sia uno storico, Sergio Luzzatto, nato nel 1963 e al quale dunque non è accaduto di inciampare nelle trappole micidiali del paesaggio novecentesco (riusciremo mai, vorrei chiedere a Eugenio Scalfari – e penso a Giaime Pintor, Elio Vittorini, Eugenio Curiel, Max Salvadori, Ignazio Silone, Norberto Bobbio e ai loro «casi» – a far capire cos'è stata l'Italia nel passaggio dagli anni '30 agli anni '40?). Detto questo, e non solo per restituire la parola ai comunisti sopravvissuti, dobbiamo chiederci però se davvero siano esistite ed esistano generazioni innocenti, senza scheletri nell'armadio e foto imbarazzanti nell'album di famiglia. Generazioni senza lager e gulag, Pinochet e Pol Pot, rivoluzioni culturali e brigate rosse, bimbi uccisi dalla «grande guerra civile africana» e dal terrorismo. Quel che penso, detto in breve, è che il vecchio Foa abbia fatto bene a scrivere la sua famosa lettera ad Alfredo Reichlin e a Miriam Mafai e che questi ultimi abbiano fatto bene a rispondere. Ma penso anche che se si entra in una biblioteca si può facilmente constatare come «il silenzio dei comunisti» sia stato in realtà meno «assordante» di quel che da più parti si continua a sostenere. La seconda questione è quella che riguarda l'effetto spesso catastrofico sugli studi di storia che il fiume di materiali provenienti dagli archivi aperti dopo il crollo dell'Urss e del comunismo ha determinato. Intendiamoci. Non c'è dubbio che l'apertura degli archivi sovietici abbia dato un nuovo, anzi uno straordinario impulso alla ricerca storica e abbia causato l'invecchiamento precoce di centinaia di volumi. Ciò tuttavia non è avvenuto, e non avviene, senza provocare effetti negativi. Non parlo soltanto dei danni dovuti alla fretta e all'imperizia dei compratori (documenti incompleti, spesso copiati o tradotti male e talvolta persino manomessi). Penso a quel che la ricerca storica ha subìto e subisce in nome del «revisionismo», che è – dovrebbe essere – spinta verso successivi livelli di verità, qualcosa dunque da non lasciare nelle mani dei «negazionisti», in seguito all'uso, spesso scriteriato, di fogli di carta sino a ieri chiusi in archivi inaccessibili e scritti per rimanere inaccessibili, caduti a pioggia sui tavoli di università, segreterie di partiti, istituti di ricerca, redazioni di giornali […].
29 novembre 2005 | l'Unità |
06 ottobre 2005 | l'Espresso |
28 settembre 2005 | la Repubblica |
11 settembre 2005 | Corriere della Sera |