Utopia del tramonto
Identità e crisi della coscienza europea
introduzione di Massimo Cacciari
«Vi è un'utopia custodita nel tramonto di Europa? Seguendo una traccia adorniana, Massimo Iiritano "lavora" con accanita passione questo interrogativo» (Massimo Cacciari, dall'Introduzione).
- Collana: Strumenti / Scenari
- ISBN: 9788822053466
- Anno: 2004
- Mese: novembre
- Formato: 14 x 21 cm
- Pagine: 216
- Tag: Politica Filosofia Filosofia politica Utopia Storia contemporanea Europa
Ha scritto Nietzsche: «Il solo denaro costringerà l'Europa a stringersi insieme, quando che sia, in un'unica potenza». Dinanzi alla spietata sfida posta da una tale sentenza, il volume tenta allora di percorrere la via opposta di una ricerca teoretica sulle ragioni profonde di quel sempre più concreto «stringersi insieme», motivato in realtà dal presentimento forte di un destino comune. Riprendendo soprattutto la lezione di Massimo Cacciari, l'autore tenta di decifrare le linee di una possibile «storia e profezia d'Europa»: sulle tracce di quell'utopia che, come scriveva Adorno, «è racchiusa nell'immagine della civiltà che tramonta». Utopia di un resistere, di uno stare interroganti nel luogo del tramonto. Poiché è proprio rifiutando l'avvenire del tramonto che l'Europa rifiuta la sua stessa essenza, il suo più proprio occidente. E in ciò sta la sua vera decadenza: l'impossibilità di pensare e di volere un'altra Europa possibile, ad occidente di se stessa e della sua stessa identità.
Introduzione di Massimo Cacciari - Madrid, 11 marzo - 1. Finis Europae - Europa senza verità - Al Principio d'Europa - Krisis. Identità e conflitto, identità e futuro - 2. Interferenze - «Picture Thinking» - Immagini di un'epoca - Solitudini di massa - 3. Tra Europa e Occidente. Utopie del tramonto - Malinconia europea - Nuovo Medioevo o Nuovo Rinascimento? - Storia e profezia d'Europa
Introduzione di Massimo Cacciari
Vi è un'«utopia» custodita nel tramonto di Europa? Seguendo una traccia adorniana, Massimo Iiritano «lavora» con accanita passione questo interrogativo. Detta in termini più «brutalmente» politici: la «deposizione», la Entkrönung, d'Europa, già «profetizzata» dai suoi più illustri interpreti nel corso del XIX secolo, nasconde la possibilità di un «contraccolpo» (Nietzsche), se non di una «resurrezione» (come sembra suggerire Iiritano stesso nelle pagine finali del suo libro)? Politici, storici, sociologi sembrano oggi, anche in seguito alla approvazione della cosiddetta Costituzione europea e comunque all'apparente consolidamento dell'Unione, interessati alla indicazione di una «utopia» europea intesa come idea regolatrice, Sinngebende, capace di dar-senso alla prassi politica determinata dei suoi organismi. In tale direzione si muovono i dibattiti sulla «identità» europea, sulla sua «memoria», ecc. Naturalmente il discorso di Iiritano è tutto meta-politico, e tuttavia è in questo contesto che trova la propria ragione di essere e la propria urgenza. Il motivo sotteso potrebbe essere così formulato: se avesse ragione Nietzsche, che il solo denaro è destinato a stringere insieme l'Europa come un'unica potenza (citazione che Iiritano pone, non a caso, quasi all'inizio del suo lavoro), potremmo fin d'ora concludere che l'Europa mai sarà una «potenza», qualsiasi significato si attribuisca al termine. Questa è l'unica certezza – ma una certezza tutta negativa. Quid tunc? Dovremmo, anzitutto, definire in che termini parliamo di «utopia» e di «tramonto». Per Iiritano «utopia» non può significare «programma» o «progetto» (le due dimensioni vengono continuamente confuse nel dibattito attuale). Come spiega Derrida (presente lungo tutto il libro), qualsiasi «programma» non può che formularsi secondo i princìpi di una Zweckrationalität, di una calcolante razionalità allo scopo, la quale, in ultimo, non potrà fondarsi che sul «fine» della conservazione del sistema. L'«utopia», nel senso di Iiritano, invece, ha a che fare con responsabilità, cioè capacità di rispondere ad una aporia, ad un «fine» che non appare «transitabile», ad un Impossibile. È evidente che se l'Europa oggi sta «semplicemente» svolgendo un «programma», non saprà evocare alcuna «responsabilità». Ma senza «responsabilità» non è neppure immaginabile grande politica. Il discorso sulla «identità» nasce da tali interrogativi. L'«identità» europea può davvero essere interpretata come il soggetto di quella idea di utopia-e-responsabilità? O invece l'«identità» europea si compie essenzialmente proprio nella Entkrönung di Europa, ma in una deposizione, in un tramonto che potremmo definire «inospitali», e cioè impotenti a dar-luogo a un nuovo sorgere? Proprio qui il discorso si fa massimamente problematico. Iiritano stesso sembra accomunare diverse diagnosi per l'«agonia» di Europa, che tuttavia si contraddicono l'una con l'altra. L'«eroico idealismo» husserliano non ha evidentemente nulla a che fare con la critica adorniana dell'«illuminismo»; l'«agonia» della Zambrano contraddice nei suoi presupposti di fondo il destino dell'Occidente, come destino della metafisica, teorizzato da Heidegger. E certamente è necessario ripetere Europa o Cristianità – ma quale Cristianità? E sarebbe concepibile la stessa idea di scienza della natura e di tecnica in altro luogo? Difficile, allora, non dar ragione alle «conclusioni» di Derrida o di Morin, che Iiritano sembra far proprie: un «cantiere tumultuoso» appare la «identità» europea; un'«armonia» di opposti; una identità-in-conflitto. Il proprio di questa cultura (o di ogni cultura?) «è di non essere identica a se stessa» (Derrida). Ciò è «logico»: non appena una cultura voglia definirsi come tale, è costretta a «distaccarsi» da sé e teorizzarsi. Cessa perciò che essere «uno» e diviene «due». Ma ciò non significa altro se non che identità e alterità si tengono indissolubilmente, che è impossibile affermare A = A senza, nello stesso tempo, relazionarlo a ciò che non è A. Nessun gioco dialettico può aggirare l'istanza politica che muove alla ricerca della identità. Poiché questa istanza non esprime che quella del riconoscimento di sé che ogni soggetto non può non volere, poiché è per tale riconoscimento che esso potrà dichiararsi «soddisfatto» – e finché questo non avvenga, esso sarà necessariamente in conflitto in sé e per sé. Né «soddisfazione » sarà mai raggiungibile soltanto economicamente, attraverso la logica dello scambio economico. Che cosa di sé l'Europa chiede o dovrebbe chiedere venga universalmente riconosciuto? La relazione con l'altro da sé ha luogo in base a questa domanda, a meno, appunto, che la sua relazione non sia pensata in termini affatto mercantili. Se proprio il suo «tramonto» rende ormai irrealistica una risposta in termini di «volontà di potenza», quali vie ci si presentano, lungo le quali misurare la nostra responsabilità? Iiritano sembra decisamente scartare quella relativistica (i cui fondamenti sono, peraltro, nient'affatto «deboli»); sulla sua base l'Europa chiederebbe il riconoscimento di un irriducibile «politeismo» in contrasto con ogni «tirannia dei valori». E in questo senso avverte come propria «missione» la realizzazione di un equilibrio politico internazionale multipolare, poliarchico. Iiritano sembra però con pari energia distaccarsi da una visione «epistemica»: l'Europa pretende il riconoscimento universale dell'atteggiamento scientifico, considerato come suo «fenomeno originario»; tale atteggiamento è, nella sua essenza, incompatibile con ogni dogmatismo, ideologico o religioso, poiché considera qualsiasi «verità » come «mera approssimazione» e la ricerca come un «orizzonte infinito di compiti» (Husserl). La Tecnica, il complesso, teoria-prassi, non sono che le versioni secolarizzate di questa concezione della scienza, e voler contrapporre le due dimensioni non sarebbe che perfetta ideologia. Anche, e anzitutto, perché la logica dell'«assolutismo relativistico» è la stessa di quello tecnico-scientifico: l'idea della «conversione» reciproca di verum e fieri. Se nel tramonto si ri-vela un'utopia, questa non potrà allora caratterizzarsi per nessuno dei «valori» (o della critica dei «valori») sopra schematicamente ricordati. E neppure semplicemente per un'idea vuota, retorica di «assenza di identità», di «comunità» della non-identità e della non-presenza. Simili retoriche cancellano il problema, senza neppure sfiorarlo. L'utopia di cui si parla può consistere soltanto nella utopia di un'identità europea capace di esser-detta e riconosciuta. Un'identità che la sua memoria rende possibile, certo, ma che esige riconoscimento per l'Adveniens capace qui-e-ora di rappresentare. Un'utopia capace di esprimere attualmente l'eschaton. Nessuna identità «passata» rende deterministicamente necessario questo suo «luogo ultimo» – appunto quello del «tramonto». Lo rende possibile soltanto. Pensare alla identità di Europa come a un risultato del processo storico sarebbe idolatria storicistica. Pensarla come invenzione del presente, sarebbe vacuo utopismo. L'utopia di cui parla Iiritano vorrebbe fondere memoria creativa e discontinuità, storia e de-cisione. Al di là di ogni determinismo e pessimismo; al di là di ogni riduzione economicistica o politicistica del problema. Il dado è tratto. In questo come in altri, importanti volumi che in questo periodo si sono misurati, a questa altezza, con l'«enigma Europa» (e vorrei qui ricordare anzitutto quello di R. Gasparotti, I miti della globalizzazione, Dedalo, Bari 2003). Il problema è impostato, non risolto. Ma proprio questo rende possibile forse «viaggiare» e non andare errando qua e là. Il senso del viaggio che Iiritano tenta sembra percorrere i tratti di quella che chiamerei una risposta «cristiana». È forse «amore» la parola che riempie l'utopia di Iiritano. Una «utopia credente»? Meglio sia il lettore a dirlo – e a svolgerne ancora l'aporia.
10 novembre 2004 | Il Riformista |