Homo civicus
La ragionevole follia dei beni comuni
L'onnipotenza del mercato produce l'inarrestabile distruzione di tutti i beni pubblici. La prevalenza di un individualismo cieco e distruttivo riempie il mondo di merci, ma lo rende sempre più ingiusto e disperato. In un mondo siffatto la cura e la tutela dei beni che appartengono a tutti sembra una follia: eppure essa costituisce l'unica ragionevole risposta al processo di privatizzazione del mondo, l'unico rimedio per evitare che esso divenga il bottino esclusivo dei più forti.
- Collana: Strumenti / Scenari
- ISBN: 9788822053459
- Anno: 2004
- Mese: ottobre
- Formato: 14 x 21 cm
- Pagine: 176
- Tag: Politica Sociologia Mezzogiorno
In un mondo in cui sembra possibile scegliere solo tra due forme di eterodirezione (quella del dubbio o quella del cliente) la difesa dei beni comuni e la scommessa della cittadinanza attiva sono l'unico modo per conciliare la difesa della libertà e la cura del bene comune, per sottrarsi costruttivamente alla tirannia degli Stati e a quella del mercato. "Homo civicus" è una proposta teorica appassionata, un manifesto politico-culturale che muove dalla convinzione che siano maturi i tempi per il risveglio civile del paese. La mobilitazione dei cittadini non é un movimento antipolitico, ma al contrario una straordinaria occasione per l'arricchimento della politica democratica, che chi ha a cuore il destino del nostro paese non può perdere. In ideale continuità con il "Pensiero Meridiano", "Homo Civicus" propone una prospettiva di valore cruciale per il Mezzogiorno. Solo la costruzione di una solida tradizione civica, fondata sulla gelosa difesa dei beni comuni, permetterà al sud di divenire un soggetto forte ed attivo della vita politica, economica e culturale del paese. È un compito tutt'altro che facile, una scommessa, una profezia positiva, rischiosa, ma necessaria.
Premessa, Un mondo in comune - I. ELOGIO DELLA CITTADINANZA - 1. Homo civicus: la comunità degli uomini liberi - L'idiota moderno - La cittadinanza e l'individualismo - Un lavoro in salita, una ferita da custodire - 2. Fuori controllo: l'Italia di Berlusconi - 3. La secolarizzazione infinita. La scommessa di Pascal e l'azione collettiva - Il mondo angusto del prigioniero - Pellegrini e palle di neve: le vie dell'azione collettiva - Beni pubblici e Dio. La scommessa di Pascal - Dalla morte di Dio a quella dei beni pubblici: democrazia e secolarizzazione - 4. Né chierici né piazzisti. Gli intellettuali nell'era della globalizzazione - Intellettuali e Stato: un matrimonio moderno - Condizione postmoderna e crisi della protezione statale - Il lavoro intellettuale tra performatività e fondamentalismo - Né chierici né piazzisti - II. IL SUD TRA EUROPA E MEDITERRANEO - 1. Un altro Occidente. Riflessioni sull'Europa - La lettura dei vincitori - Il 1989, il comunismo e il declino dell'Occidente - Il fondamentalismo dell'Occidente e l'incommensurabilità delle tradizioni - L'Europa: la necessità di un doppio movimento - L'Europa come mediazione - Europa, Oriente e Mediterraneo - 2. - Il Mediterraneo contro tutti i fondamentalismi - Che cosa è il fondamentalismo? - Pensare il Mediterraneo - L'unilateralismo e la pace - 3. Il sud tra federalismo e autonomia - Il federalismo debole del sud - L'autonomia del sud - L'autonomia «forte»: al di là di emarginazione e compensazione - Etica pubblica, beni immateriali e sapienza geofilosofica - 4. Beni immateriali e Mezzogiorno - Contro la depressione - Le nuove opportunità - Ritrovare l'eccellenza - III. UNA RAGIONEVOLE FOLLIA - 1. Il sud e l'autonomia. Riflessioni su Carlo Levi - Una parola-guida: autonomia - L'arricchimento del concetto di autonomia e il Cristo - Ai confini dell'autonomia: Contadini e Luigini oggi - 2. Il senno del prima - 3. Elogio della follia - 4. La nottata siamo noi - Avvertenza editoriale
Premessa
Un mondo in comune
1. A prima vista battersi per la tutela e la valorizzazione dei beni comuni appare una follia, perché nulla, nel mondo che ci circonda, c'incoraggia a farlo. In verità il numero di coloro che avvertono il problema cresce ogni giorno, anche perché un brontolio sordo sale dalle discariche, dove si ammassano gli effetti perversi della distruzione dei beni comuni. Ma sono molti di più (e sicuramente più potenti) coloro che alzano il volume della musica per non sentire il rumore prodotto dalla Tragedy of Commons, quelli che, con un sorriso d'ordinanza stampato sul viso, invitano a ballare e a dar seguito alla festa. Chi protesta viene accusato di sabotare l'irresistibile marcia del progresso, e viene guardato con patetica sufficienza oppure con sospetto, come se fosse animato da fini nascosti ed inconfessabili. Nel frattempo la madre di tutti i beni comuni, il nostro pianeta, va progressivamente alla malora. Solo pochi anni fa l'acqua era ancora un bene pubblico. Oggi la si acquista nei supermercati, e gli antichi rubinetti servono solo per lavarsi e per lavare. Tra non molto anche l'acqua per le pulizie diventerà una merce. Dopo toccherà all'aria, dal momento che la bellezza, il mare e i silenzi sono stati già da tempo recintati e venduti. Battersi per la tutela dei beni comuni appare quindi una follia, una stultitia, perché significa pretendere di mutare la legge di gravità che sembra governare il nostro pianeta, attraversato da monadi affannate in continua competizione tra loro. Il mondo in comune si dissolve ogni giorno, per ricomparire a spicchi nelle mani di mille proprietari, orgogliosi di aver conquistato il diritto di escludere gli altri, ius excludendi omnes. Da questa distruzione dei beni comuni escono perdenti in primo luogo i più deboli, quelli che, nella lotta per l'accaparramento privato del pianeta, arrivano quando gli altri hanno già occupato i posti a sedere e chiuso ermeticamente le porte. Tutelare i beni comuni, quei beni dal cui godimento per definizione nessuno può essere escluso, significa quindi tutelare in primo luogo tutti gli esseri umani, senza alcuna distinzione di sesso, razza, classe o cultura, difendere una forma elementare, ma vitale di uguaglianza. La «povertà felice», di cui parlava Camus ricordando le spiagge algerine e il mondo in comune della sua infanzia, non era un elogio del pauperismo, ma della fraternità, di ricchezze alla seconda potenza in quanto condivise, perché davano accesso non solo alla natura, ma anche ai nostri simili. Questo libro sostiene che vale la pena impegnarsi per la tutela e la valorizzazione dei beni comuni per più di una ragione. Un mondo diviso tra soggetti che se lo contendono senza requie e senza regole è, infatti, un mondo ingiusto, insicuro, difficile da abitare e da lasciare alle generazioni future. L'ombra raggelante della guerra, che oggi attraversa il mondo, corre il rischio di non essere passeggera se, come sostiene il presidente Bush, il tenore di vita della parte più ricca del mondo non è negoziabile. Quest'affermazione, che sembra muovere da uno spietato realismo, è la vera follia. Battersi per i beni comuni è invece ragionevole, perché chi muove dall'assunto che abbiamo un mondo in comune non si ritiene un eletto dal suo Dio, non considera gli altri degli intrusi o degli usurpatori, non ammassa nemici ai confini dell'impero, ma cerca di parlare, capire, negoziare. Tutti i fondamentalismi vanno, con pazienza e fermezza, decostruiti, perché le differenze culturali non possono diventare un alibi per la contrapposizione tra i popoli: avere un mondo in comune significa considerare la varietà culturale una ricchezza da conservare. Un universale veramente comune dovrà essere costruito a più mani. Un'attenzione forte per i beni comuni non solo non mette a rischio la libertà, ma, al contrario, rendendola lungimirante, la arricchisce e le allunga la vita. Tutti sappiamo che la pretesa di parlare a nome dell'interesse generale può mettere a rischio la libertà, ma quest'ultima non può chiudere il mondo fuori della porta. Né il volume della musica né la potenza delle armi riusciranno a tenere calmi gli esclusi. È interesse di chi ama la libertà darle un futuro, renderla più larga e condivisa, operazione esattamente contraria alla sua esportazione aviotrasportata. Esiste quindi una tensione tra la tutela dei beni comuni e quella della libertà, ma è una tensione feconda, che occorre custodire, perché aiuta ad evitare due errori di segno opposto. Da un lato quello di una libertà che, seduta su se stessa, si sottrae a qualsiasi responsabilità, dall'altro quello di una difesa dei beni comuni che autorizza indiscriminate requisizioni ad opera di pericolosi e interessati tutori dell'interesse generale. Oggi però è impossibile non vedere da che parte gravita la dismisura. Uno dei passaggi fondamentali di questo libro, contenuto nel saggio sull'Europa, sostiene che la stagione liberista, che ha preparato e poi seguito la caduta del comunismo, ha squilibrato la tradizione occidentale a favore del solo polo della libertà, allontanandola da quello della protezione sociale e della tutela dell'uguaglianza. Questo vero e proprio fondamentalismo della libertà, che impoverisce l'idea stessa di libertà e quella di individuo, è uno squilibrio gravissimo, che rende la tradizione occidentale incapace di comunicare con le altre, ed ha avviato la tragica spirale dei fondamentalismi. Per interrompere questo circolo vizioso e riacquistare la capacità di comunicare con le altre tradizioni, l'Occidente deve smettere di pensare se stesso come un modello per tutti, il punto d'approdo necessario della storia universale, deve scendere dalla cattedra, andare ai propri confini e ricominciare ad apprendere dagli altri. Esso deve riaprire al proprio interno una dialettica nuova, ridare voce alla tensione tra libertà e tutela dei beni comuni. Chi vuole che le altre tradizioni si mettano in movimento, deve dimostrare di saper mettere in movimento la propria, uscire dall'arroccamento e trovare vie di comunicazione e d'incontro. Coloro che stanno sull'altra riva possono essere incoraggiati a guadare il fiume solo se si mostra loro di non aver paura di attraversarlo per primi. Le altre tradizioni impareranno a riconoscere il valore della libertà solo se l'Occidente saprà dimostrare che la tutela rigorosa dell'autonomia dell'individuo non conduce alla progressiva repulsione di ogni vincolo, non segna la progressiva distruzione dei beni comuni. Forse non è inutile, giunti a questo punto del discorso, fare alcune precisazioni. In primo luogo la difesa dei beni comuni non coincide con una banale apologia di una forma giuridica o della proprietà pubblica, e non muove da un sospetto pregiudiziale nei riguardi del mercato. Siamo convinti che si diano dei casi nei quali alcuni beni essenziali per la comunità possono essere prodotti meglio da una molteplicità di soggetti in concorrenza tra loro. Ma tra questo schema ideale e il mercato reale c'è la stessa abissale distanza che c'era tra l'immagine del socialismo come comunità di liberi ed uguali e il dominio di nomenclature dispotiche. Il mercato reale è pieno di asimmetrie gelosamente custodite e di primati indiscutibili, e sogghigna cinicamente dei cantori della concorrenza perfetta, nello stesso modo in cui i satrapi del socialismo reale sogghignavano delle utopie libertarie. Fino a quando continuerà ad esserci tale abissale distanza tra il mercato reale a quello ideale, sarà difficile non nutrire seri dubbi sulla sua capacità di produrre beni comuni. Ovviamente tale scetticismo è limitato dalla sincera speranza di essere smentiti, perché constatare che i beni comuni possono essere prodotti in modi diversi costituisce un sicuro progresso sulla strada della loro tutela […].
20 febbraio 2005 | il manifesto |
14 ottobre 2004 | Il Mattino |
10 ottobre 2004 | la Repubblica |