Verso cosmopolis
Città multiculturali e pianificazione urbana
postfazione di Valeria Monno
Cosmopolis è un modo di conoscere e costruire la città al di fuori degli schemi mentali dominanti, è un'utopia sensibile alle comunità, all'ambiente e alla diversità culturale.
- Collana: Nuova Biblioteca Dedalo
- ISBN: 9788822062734
- Anno: 2004
- Mese: maggio
- Formato: 14 x 21 cm
- Pagine: 392
- Tag: Sociologia Filosofia Utopia Epistemologia Urbanistica Geografia
Come possiamo tutti, con tutte le nostre differenze, sentirci "a casa" nelle città multiculturali e multietniche del ventunesimo secolo? Come possiamo coesistere pacificamente in esse? Per rispondere a questi interrogativi il libro propone un'interpretazione dell'attuale condizione urbana e delle pratiche di pianificazione basata sulla nozione di differenza. Le città e le regioni del ventunesimo secolo sono state rimodellate da tre forze socio-culturali emerse alla fine del Novecento: l'ascesa della società civile; le migrazioni; il femminismo, il post-colonialismo e le rivendicazioni di altri gruppi storicamente oppressi. Queste trasformazioni etnico-culturali hanno generato nelle aree urbane ansie profonde, paura, conflitti tra culture e crimini di intolleranza diretti verso gli "stranieri". Per immaginare un futuro di coesistenza in queste città frammentate e diverse è necessario affrontare un problema basilare, quello della paura della differenza e allo stesso tempo cercare di costruire una nozione di cittadinanza urbana o locale. Il libro evoca un modo di guardare, valutare, conoscere e costruire la città al di fuori degli schemi mentali dominanti, aperto alle voci di chi è considerato culturalmente l'Altro, e propone al loro posto un'utopia urbana - cosmopolis - basata su un'epistemologia della molteplicità, sensibile alle comunità, all'ambiente e alla diversità culturale.
Ringraziamenti - Prefazione all'edizione italiana - Introduzione - Multipli/Città 15 - I. DIVULGAZIONI TEORICHE - 1. Una morte annunciata: cronaca della pianificazione modernista - 2. Ri/presentare le storie della pianificazione - 3. Esplorare le conoscenze della pianificazione - 4. La teoria che genera differenza - 5. Voci dai confini: la differenza che genera teoria - II. FONDAMENTI: PRATICHE INSORGENTI - 6. Differenza, paura, e habitus: un'economia politica delle paure urbane - 7. Pratiche insorgenti: «un migliaio di piccoli empowerments» - III. POSSIBILITÀ POSTMODERNE: COSMOPOLIS E PIANIFICAZIONE - 8. Verso cosmopolis: un'utopia postmoderna - 9. Pianificare per cosmopolis: un nuovo paradigma - Epistemologia della molteplicità: una prospettiva di ricerca-in-azione ancora da esplorare - postfazione di Valeria Monno - Bibliografia - Indice analitico
Prefazione all'edizione italiana
Cinque anni più tardi: cinque riflessioni
Questo libro, attraverso un esame accurato dei punti deboli della pianificazione modernista e dei caratteri delle città prodotti dalla pianificazione nell'ultima metà del Novecento, ha dato il via ad un nuovo progetto. La prima parte, dedicata alla critica di storia e teoria della pianificazione dominante e dell'epistemologia su cui si è costruita la pratica di pianificazione, è stata accolta con favore e non vorrei modificare nulla dei temi in essa trattati. Ma ho sempre voluto che il libro fosse molto più di una critica. Primo: il libro propone un punto di vista completamente nuovo incentrato sulla nozione di differenza per comprendere la condizione urbana della fine del Novecento, e in esso ho sostenuto che una tale prospettiva esige un ripensamento radicale delle pratiche di pianificazione. Questa interpretazione ha tratto spunto dalla comparsa di tre nuove forze socio-culturali della fine del Novecento. L'ascesa della società civile quale attore chiave della città, l'età della migrazione e dei cambiamenti etnico culturali che ad essa si sono associati nelle aree urbane, e l'epoca del post-colonialismo e delle rivendicazioni di popoli indigeni e di altri gruppi storicamente oppressi che adesso chiedono spazio, rivendicano diritti di proprietà della terra e così via. Si è adottata tale prospettiva incentrata sulle forze socio-culturali come una sorta di antidoto alle eccessive preoccupazioni di carattere economico che pervadono la maggior parte del lavoro sulla globalizzazione e sugli effetti da questa prodotti in città e regioni. Secondo: ho affermato che l'emergere di una nuova politica culturale della differenza esigeva che i pianificatori prestassero attenzione a queste nuove richieste di diritti alla città, diritti di parola, di partecipazione e di coesistenza negli spazi reali, fisici della città. Se la pianificazione dominante dovesse ignorare queste domande, allora forme alternative di pianificazione – pratiche di pianificazione insorgente – acquisirebbero un significato sempre più rilevante. Perciò, il libro ha avuto come scopo quello di provocare e sfidare i pianificatori a rispondere alla differenza nella città riscrivendo la storia ufficiale, reinventando i fondamenti teorici della disciplina e allargando le basi di conoscenza della pianificazione al fine di accogliere modi alternativi di conoscere. Sono stata meno chiara, e certamente non sistematica, nel suggerire in quale modo dare spazio alla differenza nella pratica di pianificazione, cioè nel dare una guida pratica. Da quando ho scritto il libro, alcune città australiane ed europee mi hanno chiesto consigli su come «gestire» la diversità culturale, su come incoraggiare una coesistenza pacifica negli spazi condivisi di strade e quartieri e su come evitare conflitti interculturali. Non credo che vi sia una soluzione di carattere generale a questi problemi, un progetto universale che si possa trasferire da una città all'altra. L'attività che mira a promuovere la diversità e a incoraggiare la tolleranza della differenza, per sua stessa natura, dipende necessariamente dal contesto ed è di tipo partecipativo. È un problema che deve essere affrontato non solo dai pianificatori, ma anche dalle forze di sicurezza, dal sistema educativo, è un problema che va affrontato nella definizione dell'offerta di servizi sociali e per la comunità. Ed è un problema di tutti i cittadini di ogni città. Infatti è un problema di cittadinanza intesa nel suo senso più ampio. Penso che valga la pena discutere di una nozione di cittadinanza urbana o locale (per quanto distinta da quella di cittadinanza nazionale: cioè di appartenenza a uno stato) che includa tanto diritti quanto responsabilità. Da un lato si può discutere dell'importanza dei diritti alla città per tutti coloro che vi risiedono: del diritto di parola, di partecipare e quello di occupare spazi pubblici senza paura. Questa è una questione per sua natura controversa e contestata nella maggior parte delle città ed è, soprattutto, un problema politico. Dall'altro lato si ha bisogno di parlare di più delle responsabilità implicate dalla cittadinanza urbana e, in particolare, penso, a quanto sia importante accettare collettivamente un destino comune come cittadini che condividono lo stesso spazio urbano ed essere tolleranti verso tutti i concittadini con tutte le loro differenze. È questa la condizione indispensabile di una cosmopolis, una città/regione in cui esiste un legame sincero con l'Altro culturale a cui si dà spazio e che si rispetta ed è, quindi, la condizione perché si abbia la possibilità di lavorare insieme sui temi di un destino comune, di stare insieme nella differenza. Sebbene in alcuni paesi che si sono dotati di specifiche politiche multiculturali alcune città abbiano sviluppato politiche e servizi urbani mirati a particolari gruppi etnico-culturali, lo si è fatto solitamente a spese delle attività interculturali e della cooperazione. Può darsi che sia giunto il momento di smettere di parlare di multiculturalismo e di usare invece il linguaggio dell'interculturalismo per sottolineare quanto sia importante spingersi oltre la zona di benessere di ciascun gruppo, dove ci si riunisce solo con persone simili, e cominciare a interagire attraversando culture. Questa sembrerebbe essere una nuova importante direzione politica alla luce di quanto accaduto nelle città inglesi durante i disordini razziali dell'estate del 2001. Una nota finale su questo tema delle risposte politiche mirate ad accogliere la differenza: esiste una dimensione simbolica di importanza cruciale. Mi sono resa conto di questo quando stavo lavorando per la città di Birmingham agli inizi del 2002. Ogni processo di cambiamento, come quello dell'immigrazione significativa di gruppi culturalmente diversi, suscita certe paure che, in parte, derivano da una perdita prevedibile (di ciò che è familiare, di edifici familiari, vicini familiari, routine quotidiane familiari). Nel processo di cambiamento si deve provvedere ad attuare una politica quotidiana dell'identità, si deve comprendere che le identità delle persone sono in parte legate al passato e che le persone devono essere capaci di svincolarsi da queste adottando un atteggiamento positivo, con lo scopo di superarle, di abbracciare il cambiamento. Ciò significa che ogni gruppo deve trovare il proprio senso di continuità, deve trovare un proprio significato da attribuire ai cambiamenti proposti. Nessun calcolo impersonale, utilitaristico di «bene comune» eseguito da pianificatori persuaderà queste persone, a meno che loro non possano immaginarsi in questo nuovo scenario con le proprie identità se non intatte, almeno rimodellate in modi comprensibili e accettabili […].