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Il dilemma euroatlantico
Rapporto 2004 della Fondazione Istituto Gramsci sull'integrazione europea
a cura di Giuseppe Vacca
L'avvento dell'euro, il processo di allargamento e l'elaborazione attualmente in corso di un trattato costituzionale hanno notevolmente ampliato le dimensioni della costruzione europea. Alle sue nuove prospettive la Fondazione Istituto Gramsci dedica il suo secondo rapporto annuale. Il volume ospita i contributi di alcuni dei maggiori specialisti dell'integrazione europea e delle relazioni euroamericane, tra cui Federico Romero, Mario Del Pero, Luciano Segreto, Michael Cox, Mary Nolan, Antonio Missiroli e Fabio Sdogati.
- Collana: Nuova Biblioteca Dedalo
- ISBN: 9788822062680
- Anno: 2004
- Mese: marzo
- Formato: 14 x 21 cm
- Pagine: 336
- Tag: Politica Economia Politica internazionale Europa
Questo secondo Rapporto annuale della Fondazione Istituto Gramsci sull'integrazione europea comprende, come il volume del 2003, una parte monografica e quattro rubriche. La monografia del 2004, curata da Mario del Pero e Federico Romero, è dedicata alla crisi dei rapporti tra Europa e Stati Uniti ed esamina le varie dimensioni - geopolitiche, economiche, culturali - delle relazioni transatlantiche, mettendo a confronto le diverse posizioni dei principali paesi europei rispetto agli Stati Uniti. L'obiettivo è di dare risposta al quesito se le recenti difficoltà nei rapporti tra Europa e Stati Uniti siano legate a vicende politiche contingenti o vadano considerate come l'inevitabile conseguenza dell'evoluzione del sistema internazionale successivo alla guerra fredda. Le rubriche offrono un monitoraggio critico sui principali cantieri dell'integrazione europea, gli sviluppi istituzionali, con un esame dei lavori della Convenzione e della Conferenza intergovernativa; il contesto economico dell'allargamento; la costruzione dello "spazio di libertà, sicurezza e giustizia"; la politica estera e di difesa dell'Unione.
Presentazione di Giuseppe Vacca - I. I RAPPORTI TRA EUROPA E STATI UNITI IN UNA PROSPETTIVA STORICA a cura di Mario Del Pero e Federico Romero - Mario Del Pero e Federico Romero, Introduzione - Michael Cox, Gli europei vengono da Venere e gli americani da Marte? Le relazioni transatlantiche dall'11 settembre all'Iraq - Mary Nolan, Antiamericanismo e antieuropeismo - Mario Del Pero, I neoconservatori e l'Europa - Antonio Missiroli, Un anno vissuto pericolosamente: l'asse franco-tedesco, l'Iraq e l'Europa - Andrea Romano, Un venusiano in abiti marziani. Tony Blair, la «special relationship» e l'Iraq - II. LE ISTITUZIONI - Sandro Guerrieri, Dalla Convenzione alla conferenza intergovernativa. Il percorso a ostacoli della Costituzione europea - Paolo Borioni, Le elezioni del 2003 in Europa - III. ECONOMIA E ALLARGAMENTO - Fabio Sdogati, Stagnazione e allargamento - IV. LO SPAZIO DI LIBERTÀ, SICUREZZA E GIUSTIZIA - Ferruccio Pastore, Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia tra allargamento e costituzionalizzazione - V. LA POLITICA ESTERA E DI SICUREZZA E L'AZIONE ESTERNA DELL'UNIONE - Mario Del Pero, La politica estera e di sicurezza dell'Unione - Roberto Menotti e Paolo Brandimarte, II difficile cammino della Pesd: sviluppi in corso e prospettive - Rosa Balfour, La periferia dell'Unione europea. Una rassegna delle relazioni esterne Ue - Gli autori
Giuseppe Vacca
Presentazione
Presentando il primo Rapporto annuale della Fondazione Istituto Gramsci sull'integrazione europea, un anno fa, ne indicai il principale obiettivo nell'intento di offrire uno strumento di riflessione e di studio degli avvenimenti che ne scandiscono il processo, collocandoli in prospettiva storica. Il 2003 è stato un anno denso di eventi che hanno attraversato tutte e quattro le aree di interesse del Rapporto: le istituzioni (i lavori della Convenzione e della conferenza intergovernativa); l'economia (con particolare riferimento alla realizzazione dell'allargamento); lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia; la politica estera e di difesa comune. Quanto più significativi sono stati le novità e talvolta i dilemmi incontrati nel percorso, tanto più si è rivelato utile inquadrare gli eventi nel medio periodo, collegandoli alle vicende, ai progressi e ai problemi che l'Unione europea ha vissuto a datare dal 1991 (l'anno che, con la fine dell'Urss e il Trattato di Maastricht, segnò il suo «nuovo inizio»). Tale criterio risulta ancora più efficace per il tema della monografia, dedicata quest'anno al dilemma euroatlantico. Già nell'autunno del 2002 l'enunciazione della «dottrina Bush» lasciava presagire che i principali appuntamenti del 2003 sarebbero stati condizionati dal coagularsi di una vera e propria asimmetria fra l'unilateralismo dell'amministrazione americana e il multilateralismo dell'Unione europea: due modi diversi e alternativi di intendere il ruolo di attore globale dell'una e dell'altra «potenza», le sfide della globalizzazione e soprattutto le risposte da dare alla crisi della «globalizzazione asimmetrica», cominciata nel 2000. Nel 2003 gli sviluppi della vicenda irachena hanno reso stridente quella asimmetria e provocato divisioni e contrasti fra i paesi europei che, se da un lato rendono più chiari e distinti gli interessi e le visioni che caratterizzano gli attori del processo di integrazione – Stati, governi, famiglie politiche, gruppi di interesse –, dall'altro si annodano in un groviglio che non sarà facile districare. Nel tentativo di fare il punto sulle diverse strategie che si sono confrontate sui rapporti euroatlantici abbiamo avvertito l'esigenza di ricostruire l'origine e lo sviluppo delle più innovative: quella di Blair e soprattutto quella di Bush. Se nel primo caso è sufficiente la misura temporale dell'ultimo decennio, per quanto riguarda la destra americana è stato necessario risalire agli anni Settanta del secolo passato: in particolare, gli autori della monografia contenuta nel Rapporto fanno risalire in buona misura l'origine della «dottrina Bush» alla «nuova guerra fredda » di Reagan. A questa breve presentazione non spetta il compito di riassumere le analisi della politica internazionale degli Stati Uniti da Nixon a G.W. Bush contenute nella monografia. Giudicherà il lettore se, come a me pare, esse siano molto utili per intendere l'origine lontana e le aporie attuali dell'unilateralismo americano e il significato delle difficoltà incontrate dall'Europa nel confrontarsi con esso. Vorrei invece fermare l'attenzione su alcuni luoghi comuni che caratterizzano la percezione dell'uno e delle altre. Il primo riguarda l'11 settembre: non avendo vissuto quello shock sulla propria pelle, si dice, gli europei non si renderebbero conto delle nuove minacce rappresentate dal terrorismo internazionale e per questo sarebbero contrari alla teoria della «guerra preventiva». È opportuno ricordare che questa teoria non è nata dopo l'11 settembre del 2001, ma dieci anni prima, quando alcuni fra i più influenti think tanks della destra americana cominciarono a mettere a punto una nuova strategia globale per gli Stati Uniti nel mondo post-bipolare. In secondo luogo, è bene tenere presente che la teoria della «guerra preventiva » non è stata assunta dall'amministrazione americana subito dopo la distruzione delle due torri, ma è diventata la «dottrina Bush» un anno dopo; e fra il settembre 2001 e il settembre 2002 c'è di mezzo la catena degli iperbolici scandali e crac che hanno travolto alcuni colossi della finanza e dell'industria multinazionale americana. Inoltre, c'è stato un mutamento significativo della politica economica dell'amministrazione Bush. Infine, è utile ricordare che la risposta iniziale americana all'11 settembre fu la costruzione della più ampia coalizione internazionale che mai si fosse vista prima, per muovere guerra all'Afghanistan dei talebani; la guerra all'Iraq, invece, è stata concepita, giustificata e condotta fin dall'inizio in modo unilaterale. Sorge dunque il problema di ricostruire l'origine della teoria della «guerra preventiva» e di inquadrarla negli svolgimenti della politica estera americana dell'ultimo trentennio: dalla crisi del blocco newdealista che portò alla vittoria di Reagan, fino all'elezione di G.W. Bush. Al notevole scavo compiuto in questo volume vorrei aggiungere qualche ulteriore tema di riflessione. Ciò che colpisce in questa strategia non è la definizione sempre più unilaterale dell'interesse nazionale americano. Certo, per la maggiore potenza mondiale questo approccio segnala una progressiva perdita di fiducia nelle proprie capacità egemoniche; tuttavia, potrebbe essere legittimo. Colpisce, invece, la definizione dell'interesse nazionale in termini di «sicurezza totale» che radicalizza una visione posta già da Reagan a base del programma di «guerre stellari», più volte fallito, e ricorda le concezioni della politica estera dei regimi totalitari europei degli anni Trenta. Essa manifesta un senso di ansia e di crescente insicurezza piuttosto che, come si vorrebbe far credere, di potenza. È sorprendente osservare come gli Stati Uniti, protagonisti dopo la Seconda guerra mondiale delle strategie politiche e della costruzione delle istituzioni sovranazionali che hanno favorito la crescita dell'interdipendenza, gli sviluppi della legalità internazionale e la nascita di una sia pure inadeguata governance mondiale, appaiano oggi così ostili ad esse e ne provochino inopinate lacerazioni. Inoltre, non vi è chi non veda come questo modo di definire l'interesse nazionale sia incompatibile con qualunque idea di ordine mondiale basato sulla legalità e capace di promuovere la democrazia internazionale. Infine, essa segna un ritorno alla concezione dell'inevitabilità della guerra, e ciò evoca la struttura del mondo dei primi quattro decenni del Novecento, piuttosto che quella dell'ultimo sessantennio. Altrettanto aporetica è la percezione della minaccia con cui la teoria della «guerra preventiva» si giustifica. Il terrorismo internazionale è certamente una minaccia inedita e globale (contro il genere umano, si è detto dopo l'11 settembre, replicando ai teorici del conflitto di civiltà). Ma la percezione della minaccia non coincide con l'identificazione del nemico. Innanzi tutto, non si è riusciti ancora a dare una definizione convincente e condivisa del terrorismo internazionale, e questo non dipende solo da difficoltà concettuali, ma anche dalle divisioni sedimentate nel pensiero strategico internazionale. Ma soprattutto è bene avere chiaro, come di recente ha ricordato Brezinzski, che il terrorismo è un metodo di guerra, non la figura di un nemico: è come se durante la Seconda guerra mondiale, egli ha aggiunto, avessimo considerato il nemico la Blitzkrieg invece di Hitler. La soluzione adottata dall'amministrazione Bush appare dunque quanto mai insoddisfacente: il nemico è individuato negli «Stati canaglia», così definiti e identificati, di volta in volta, in modo del tutto unilaterale. A parte ogni altra considerazione, può essere giusta una definizione del nemico non vincolata al principio di reciprocità? Per essere credibile una definizione del nemico dovrebbe essere sottoposta a quel principio (non posso definirti il mio nemico se non è dimostrabile che così tu definisci me); altrimenti appare fallace e ingannevole, volta a giustificare guerre di cui le ragioni vere non sono quelle dichiarate. Altra cosa è la giustificazione della guerra per «ingerenza umanitaria », che non sottostà al criterio della reciprocità. Ma, non a caso, essa non è classificabile come «guerra preventiva», ed è giustificata dalla necessità, avvertita dalle istituzioni sovranazionali, di ripristinare la legalità internazionale violata: una realtà e un principio che la destra nazionalista americana sembra oggi disconoscere, e che comunque ha apertamente violato nella vicenda irachena e non solo. Infine, ma non meno importante, nell'era atomica una nozione della politica basata sull'immagine del nemico è palesemente anacronistica. Si potrebbe obiettare che proprio l'era atomica è stata caratterizzata dall'elevazione della coppia amiconemico a principio della politica mondiale: cos'altro era il sistema della guerra fredda se non un'organizzazione dicotomica della politica mondiale basata sull'immagine del nemico (comunismo contro capitalismo, democrazia contro totalitarismo, ecc.)? Ma, com'è noto, quella era solo la rappresentazione condivisa di una struttura del mondo consensualmente disciplinata dalle due maggiori potenze nella consapevolezza che il potere di distruzione reciproca, di cui erano entrambe dotate, ne condizionava la possibilità di ricorrere alla guerra come prosecuzione della politica con altri mezzi. I due nemici erano, in realtà, i condomini di un ordine mondiale sempre più interdipendente e refrattario all'unilateralismo. Detto in altri termini, entrambi i contendenti sapevano che la guerra fredda non era propriamente una guerra, poiché non poteva essere vinta né dall'uno, né dall'altro; e soprattutto, l'eventuale «vincitore» non avrebbe potuto dettare le sue condizioni al vinto perché si sarebbe trovato a dover affrontare da solo i problemi del mondo intero. Certo, anche la monografia che qui si pubblica documenta come fra la metà degli anni Settanta e i primi anni Ottanta il sistema della guerra fredda non fu più concepito in termini di equilibrio: l'espansionismo sovietico e la «nuova guerra fredda» di Reagan crearono le premesse della sua fine, e la definizione dell'Urss come «impero del male» appare il vero antecedente della teoria degli «Stati canaglia». Ma se, nella lunga transizione postbipolare, non si è riusciti ancora a disegnare un nuovo ordine mondiale, è realistico pensare di poterci riuscire ricorrendo nuovamente al teorema di Von Clausewitz? I temi a cui ho accennato non sono affrontati tutti nella monografia. Ho voluto farlo perché essi segnalano una novità impressionante: con la «dottrina Bush» la più grande democrazia del mondo propugna una concezione delle relazioni internazionali che contraddice i principi basilari della democrazia. È una posizione incommensurabile che tende a ridisegnare la figura della destra internazionale in modo inedito, regressivo e minaccioso. Per capire da dove nasce e dove può portare bisognerà «cercare ancora».
Roma, 12 gennaio 2004