La matematica è la più antica, la più universale e la più immutabile delle discipline. Si può dire che la matematica di base, quella per intenderci delle elementari e delle medie inferiori, insegnata oggi pressoché identica in tutte le scuole del mondo, da New York alle giungle centroafricane, non è molto diversa da quella che insegnavano gli scribi babilonesi o egizi.
E questo viene spiegato in genere in due modi, il primo dei quali è che ciò accade poiché la matematica è ‘banale’: due mele e due mele fanno quattro mele, due computer e due computer fanno quattro computer. La scienza è empirica ma le sue proposizioni devono essere trattate logicamente: per soddisfare in modo efficiente queste due esigenze e descrivere la conoscenza della realtà, la matematica serve come strumento linguistico. Certo, per trattare di tecnologie più sofisticate il linguaggio e le tecniche matematiche sono diventate più complesse, ma sempre di tecniche e strumenti linguistici stiamo parlando. La storia della matematica è allora una storia ‘piatta’, ‘dipendente’ dalle altre storie, della scienza o della tecnica, in quanto è la storia di uno ‘strumento’ che si deve adeguare alle esigenze reali, come la ‘storia del martello’. E questa idea è diffusa in diverse forme: da un certo formalismo, dal neopositivismo e pragmatismo tra gli ‘scientifici’ alle varie forme di idealismo e spiritualismo tra gli ‘umanisti’. La matematica appare ‘ovvia’, ‘logica’, ‘naturale’, forse anche un po’ noiosa.
La seconda spiegazione possibile è che la matematica sia solo la scoperta progressiva di un ‘mondo di idee’, da guardare con gli occhi della mente, un mondo immateriale ma reale quanto quello fisico che ci circonda. E allora la storia della matematica è solo la storia della ‘scoperta’ progressiva di questo mondo, è come la storia della scoperta del continente americano. Così se Descartes e Fermat non fossero mai nati, qualcun altro avrebbe ‘scoperto’ la geometria analitica. Quanto diversa è questa storia da quella della letteratura, dell’arte o della musica! Se Dante non fosse mai nato avremmo la Divina commedia? E se la peste avesse ucciso da giovane Leonardo avremmo avuto la Gioconda? Questa idea vagamente ‘platonista’ appare, più spesso implicita ma talora esplicita, soprattutto tra i matematici. La storia della matematica allora sembra solo una ‘cronaca’, la cronistoria di uno sguardo che si estende, di un paesaggio che si rivela man mano che la nebbia si dirada. E anche così la matematica appare ‘ovvia’, ‘logica’, ‘naturale’, direi anche un po’ noiosa.
Ma c’è una terza possibile spiegazione: che la matematica sia un’antropologia radicale, che in quanto tale essa appaia tra le più antiche attività costituenti l’essere umano, tra le più profonde manifestazioni del suo spirito, un distretto antropologico antichissimo e irriducibile ad altro.
Più in generale direi che esistono alcuni ‘territori’ che per i linguaggi scientifici e speculativi appaiono particolarmente impraticabili: la poesia e il linguaggio, la musica, l’arte, la religione... e la matematica. Sì, anche la matematica. Essi sono impermeabili al discorso logico e filosofico, ci si entra, si guardano, si vivono e si raccontano, eredi del Mystisches di Wittgenstein, solo che, contrariamente a quello che supponeva il Tractatus logico-philosophicus, anche quel mondo logico che dalle antropologie Wittgenstein voleva separare ha un fondamento antropologico. Che cos’è la matematica? Non lo so, ma sto cercando di raccontarne i caratteri. Se in questo racconto dirò qualcosa che sembra una definizione, una caratterizzazione, occorre sempre ricordarsi che l’essenza della matematica non si può dire. Un’eventuale caratterizzazione non deve allora essere vista come una definizione speculativa, ma come una pennellata brusca in un affresco, finalizzata non a rappresentare una ruga reale, ma a evocare un’impressione, un’espressione del volto, un sospetto. Questo racconto è l’opera non di un filosofo, ma di un ‘contastorie’.
Quindi la matematica non è per nulla una sorta di ‘strumento’ linguistico della scienza, ma è il pozzo in cui la conoscenza guarda verso l’abisso da cui è nata e dal quale si sente guardata, e nel quale trova la sua più segreta ragion d’essere. L’ho definita una antropologia radicale, la più radicale delle antropologie, tanto radicale da dare l’impressione di rinviare a una realtà di enti esistenti platonicamente in una regione iperurania o logicamente nella realtà quotidiana. Invece i concetti e i giudizi matematici costituiscono quel frammento del linguaggio naturale che tratta dei caratteri olistici della connessione linguaggio-realtà. Infatti, se un oggetto è rosso ogni sua parte è rossa, se è caldo ogni sua parte è calda, mentre se è circolare non ogni sua parte è circolare. Oppure, se gli Apostoli sono ebrei, allora san Pietro è ebreo, ma se gli Apostoli sono dodici, san Pietro non è dodici. Questo rapporto tra il giudizio matematico e la relazione parte/tutto è stato sempre chiaro, da Aristotele a Leibniz, Kant e Frege.
Il carattere olistico e relazionale dei concetti colloca in questo frammento del linguaggio quegli attributi che non sono patrimonio analitico dei singoli organi di senso come percezioni immediate (colore, suono, tatto, sapore, odore), i ‘sensibili propri’, sempre veri in quanto fonte di classici attributi immediatamente analitici e percepibili negli individui; e lo costruisce invece intorno alle sensazioni ‘comuni’, provenienti cioè dall’interazione fra sensi diversi o dalla relazione tra sensazioni successive (movimento e quiete, numero e unità, figura, luogo, grandezza, dimensione, tempo), attributi quantitativi delle sostanze individuali, i quali, come l’immaginazione, sono più esposti al rischio dell’errore, in quanto non immediati e non legati ai sensibili propri (Aristotele, De anima, II, 6, III, 3; De sensu et sensato, 4). Una ‘ontologia in III persona’ come quella greca antica, nella quale i verbi di conoscenza erano verbi legati alla visione, non poteva non vedere in questi ‘sensibili senza organo di senso’ che qualcosa i cui rapporti con l’essere erano problematici. Ma essi apparivano anche ‘sovradeterminati’ e quindi strettamente e necessariamente connessi tra di loro, e quindi con una ricca ‘densità di mutue connessioni logiche’, mentre i sensibili specifici restavano invece di natura contingente ed empirica.
Ma non tutti gli aspetti olistici del linguaggio sono matematici, anche la bellezza è olistica. Sono enti matematici solo quelli olistici che possono essere descritti o costruiti analiticamente nel tempo: la dimostrazione geometrica euclidea realizza nel tempo la descrizione della costruzione della figura, il numero cardinale sincronico viene riconosciuto nel contare diacronico. Il carattere costruttivo dei concetti era la prerogativa dei concetti matematici: costruire un concetto significava «esporre a priori un’intuizione ad esso corrispondente» (Kant, 1781, A714/B742), ottenendo un ente singolo ma con valore universale. Pur essendo olistici i concetti matematici sono quindi ispezionabili analiticamente e questo fonda la connessione dei concetti matematici con i segni.
È questa natura costruttiva del concetto matematico che sta alla base del carattere individuale eppure universale della dimostrazione matematica. La dimostrazione matematica è in essenza una costruzione che ricalca la natura al contempo olistica e costruttiva del concetto. La particolare costruzione è per questo solo apparentemente individuale, in quanto concerne soltanto gli aspetti olistici. Ne consegue anche che i concetti matematici sono tra di loro intrinsecamente e fortemente connessi, e quindi il carattere olistico del concetto matematico si traduce nella ‘densità’ delle connessioni tra le proprietà matematiche, ed esiste un intreccio di relazioni costruttive reali e necessarie tra tali concetti: questa sovradeterminazione è poi la radice della struttura dimostrativa che assumono le scienze matematiche, e ne deriva quella ‘necessità’, ‘ineluttabilità’, ‘certezza’ che caratterizza la deduzione matematica, che non ha né i caratteri di una verità empirica, né puramente analitica, pur essendo necessariamente percettiva e costruttiva. È questa sovradeterminazione che impone la trilateralità a una figura triangolare. Il carattere costruttivo di tale olismo in geometria e in un’aritmetica figurata appare già nella tradizione aritmogeometricapre-greca incardinata nell’uso dell’abaco, e la dimostrazione euclidea è semplicemente l’ostensione linguistica di questa densità concettuale, costruttiva, olistica e necessaria.
Questo si legge chiaramente in Kant, ma si intravede già nell’antica ekthesis della logica aristotelica e della dimostrazione euclidea. In Euclide essa denotava la figura particolare su cui si costruiva il teorema in quanto costruzione visuale (diagramma), in Aristotele denominava un’istanza di una premessa nella dimostrazione di certi sillogismi. In entrambi i casi siamo nel regno dell’universale, e sarebbe sbagliato parlare di una ‘individuazione’, sia perché ne distruggerebbe il carattere generale tanto in logica che in geometria, sia in quanto estranea all’idea greca di una ‘scienza di universali’ e non di individui.
La formazione del concetto matematico è la costruzione formale dello stesso. In questo Kant aveva ragione: i concetti matematici non hanno una base empirica al di là del fondamento empirico dei termini del linguaggio che la matematica prende dal linguaggio naturale, ma, possiamo aggiungere, rinviano a un frammento linguistico nella cui cornice noi parliamo del mondo, ed è questo che ne fa una condizione a priori della conoscenza possibile. E chiedersi se ciò derivi dalla natura della realtà o dalla natura del nostro spirito o da qualcos’altro sarebbe filosofia speculativa. Solo la fenomenologia del concetto matematico si può ‘dire’: nel concetto generale sono impliciti tutti i subconcetti e gli enti singolari (triangolo ⇒ proprietà e triangoli particolari, equilateri, scaleni, ecc.), in quanto non vi è alcun debito empirico da saldare ma è viceversa l’empiria a doversi iscrivere in esso.
Diversa è la fenomenologia del concetto filosofico-comune: i concetti si formano su base empirica e il concetto generale non implica subconcetti ed enti singoli: dal concetto di ‘animale’ non si ricavano i concetti di ‘cane’, ‘gatto’, ecc., anche se la dialettica platonica o le monadi di Leibniz l’avrebbero richiesto, e non casualmente per questi autori la matematica era la base del sapere e il linguaggio era già una logica. Glossa a Kant: la struttura analitica del linguaggio quotidiano è la culla del concetto filosofico, i suoi frammenti olistici e costruttivi di quello matematico.
Inoltre il carattere non analitico e non immediato della matematica la rendeva non acquisibile direttamente nella prassi, ma richiedeva uno specifico iter didattico, come testimoniato dalla stessa etimologia della parola ‘matematica’.
Il linguaggio matematico elementare è quindi inizialmente il frammento del linguaggio naturale relativo alla quantità, che si caratterizza per il fatto che:
– i suoi termini sono olistici, tanto numeri che figure, e non analitici, legati quindi alla relazione parte/tutto;
– è costruito e appreso a partire da ‘elementi’, invece che percepito o analizzato: l’intuizione è olistica, ma il soggetto la ricostruisce nel tempo;
– si manifesta nei sensibili comuni e non in quelli specifici.
I ‘segni’ hanno sempre avuto una pessima reputazione, tanto fra gli scienziati, quanto tra gli umanisti: sono ‘solo segni’, niente a che vedere con le ‘idee’, quelle sì, veramente importanti. Per Frege il paradigma del segno è la <imgsrc=”http://www.edizionidedalo.it/NEWSLETTER/segno.png” />per indicare il pianeta Giove, i segni sono «puri e semplici strumenti ausiliari del pensiero e della comunicazione» (Frege, 1893, §98).
Invece, io credo che la storia della matematica come antropologia radicale sia indissolubilmente legata alla ‘storia naturale’ del regno dei segni, e non solo per quanto riguarda la storia della matematica moderna. La storia naturale dei segni è quindi uno dei temi cruciali di questo saggio e di quelli che l’hanno preceduto.
I segni sono considerati ancor oggi un dettaglio tutto sommato secondario e banale, il famoso aliquidstat pro aliquo di sant’Agostino: il filo di fumo per il fuoco, la parola ‘casa’ per la casa, l’anello di foglie sull’insegna della trattoria per indicare che vi si vende vino. Non ci si rende conto che nel Medioevo nasce il ‘segno algebrico’ che ci pone di fronte qualcosa di nuovo e incommensurabile rispetto al passato, nato dalla fretta ‘produttiva’ dei copisti medievali che li portava a troncare, legare, fondere le parole (Cappelli), e diventato però poi un nuovo tipo di linguaggio costruito su alcune relazioni del tutto nuove:
– La relazione tra segno e significato/senso. Il segno algebrico evolve in un radicale svuotamento di senso e significato: esempio più paradigmatico la x che appare nelle equazioni dapprima come semplice incognita, poi come simbolo generico nella descrizione delle curve come equazioni, e infine come variabile relativa a una grandezza fisica nell’uso dell’algebra come linguaggio della fisica.
– La relazione tra segno e algoritmo. A partire dalla matematica islamica gli algoritmi appaiono come procedure generali sintattiche, delle quali cioè i segni sono gli ingredienti essenziali, e gli algoritmi sono il luogo del senso perduto dai segni, attraverso il loro uso. Esempio classico sono le operazioni sulle cifre indo-arabe, una rivoluzione non dovuta al loro carattere posizionale o all’esistenza dello zero, cose già apparse in Mesopotamia e Cina, ma al fatto che in esse si operava sui ‘segni’ e non su pietroline o bastoncini, come accadeva nell’abaco.
– La relazione tra segno e macchina. Appariva la coincidenza tra la procedura generale nella forma dell’algoritmo e il processo meccanico, e in questo si manifestava il carattere ‘anfibio’ del segno, nel contempo ente astratto-mentale e concreto-manipolabile meccanicamente: forse il primo esempio è l’orologio meccanico, nel quale l’algoritmo circolare del successore modulo 12 si realizza nella ruota dentata, che non casualmente sarà poi la base delle prime calcolatrici di Pascal e Leibniz.
I segni algebrici non hanno né un’origine logica – anzi della logica moderna sono un ingrediente essenziale, Hilbert li poneva come presupposto della stessa ragione umana – né ancor meno un’origine empirica – come loro carattere essenziale hanno l’essere convenzionali – così che un neokantiano come Cassirer ne faceva degli autentici a priori.
L’emergere dell’algebra simbolica è qualcosa di assolutamente incomprensibile come conseguenza di filosofie, innovazioni tecniche, sviluppi economici, ragionamenti logici o idee geniali di qualche singolo, è piuttosto un processo che affonda le sue radici da un lato nella caratterizzazione algoritmica apparsa nella matematica islamica che introduceva la manipolazione sintattica alla base della matematica, dall’altro nella crisi rinascimentale dell’universo linguistico medievale europeo nel quale la pratica della semplificazione dei termini dette i natali al primo linguaggio nel contempo artificiale e universale della storia.